Il sustainability manager è una figura professionale sempre più richiesta dalle aziende che necessitano di essere supportate e guidate con competenza ed efficienza nell’individuare la propria strategia di trasformazione sostenibile e le azioni da mettere in campo. Sebbene il manager della sostenibilità sia un ruolo che esiste da oltre vent’anni, negli ultimi tempi ha avuto una forte evoluzione.
Nata nel 2006 come CSR Manager Network, dal 2021 Sustainability Makers – the professional network (SM) è l’associazione italiana di categoria che riunisce 280 sustainability manager italiani e che veste sempre più i panni di un vero e proprio ordine professionale. A capo di SM v’è dal 2020, Marisa Parmigiani, che ricopre anche la carica di Head of Sustainability and Stakeholder Management del gruppo Unipol e di Managing Director di Fondazione Unipolis.
Alla presidente, appena rieletta per altri tre anni di mandato, ESGnews ha chiesto come sta cambiando la funzione dei sustainability manager all’interno dell’organizzazione aziendale e in che direzione si sta proiettando.
Sul futuro della associazione, Parmigiani sembra avere le idee chiare. “Uno dei nostri obiettivi primari riguarda il costante aggiornamento dei nostri associati”, ha dichiarato la neoeletta presidente, “garantire alta professionalità degli operatori della sostenibilità rientra nel ruolo sociale che distingue il Sustainability Makers: professionisti competenti che saranno in grado di implementare al meglio i fattori ESG all’interno delle imprese e, al contempo, di generare maggiori impatti positivi per la comunità e l’ambiente. Intendiamo poi focalizzarci sull’aspetto dell’advocacy, soprattutto in ambito normativo. Le partite da giocare sono critiche ed è necessario che persone competenti facciano sentire la propria voce”.
La figura del sustainability manager si sta affermando come sempre più centrale nell’organizzazione aziendale. Quale evoluzione ha visto negli ultimi anni?
Negli ultimi 20 anni il ruolo del sustainability manager è molto cambiato. Inizialmente il manager della sostenibilità si occupava per lo più di comunicazione e solo in un secondo momento è passato ad affiancare figure manageriali amministrative e finanziarie, occupandosi di questioni spesso legate al bilancio o al processo produttivo in senso ampio.
Oggi il sustainability manager è la figura che segue gli aspetti riguardanti la compliance normativa e garantisce il presidio dei rapidi sviluppi. Al contempo, deve occuparsi della pianificazione strategica aziendale ed interfacciarsi con le funzioni di audit, rischio e controllo di gestione, soprattutto in questa fase in cui le questioni di sostenibilità non sono ancora patrimonio diffuso all’interno delle aziende.
A suo avviso, qual è la collocazione ideale della funzione di sostenibilità nell’organigramma aziendale?
È una funzione che sta acquisendo sempre più autonomia e indipendenza e la tendenza che si riscontra negli ultimi tempi è la nascita di dipartimenti dedicati.
Con l’affermarsi delle tematiche ESG nei piani industriali e con l’espandersi di una consapevolezza diffusa sul ruolo strategico della sostenibilità, ogni dipartimento necessita di supporto al riguardo. Ecco allora che il sustainability manager con il proprio team specializzato può assurgere a facilitatore di processi e consulente interno, è un’interfaccia con tutte le funzioni aziendali, in primis quelle di rischio e controllo.
Quale preparazione deve avere un sustainability manager? Come influisce l’evoluzione delle competenze tecniche su questo incarico?
Da questo punto di vista c’è stato un profondo cambiamento. Inizialmente il sustainability manager era una figura selezionata tra chi, all’interno di un’azienda o organizzazione, mostrava un solido orientamento valoriale più che competenze specifiche in ambito ESG, le quali spesso passavano in secondo piano. Era un contesto ben diverso da quello attuale in cui, da un lato, c’era meno consapevolezza diffusa delle tematiche di sostenibilità e, dall’altro, non esisteva una reale offerta formativa specifica. Le cose oggi sono molto diverse, si amplia sempre più il ramo delle competenze e al contempo le possibilità di apprenderle. Il mercato della formazione è infatti molto mutato ed ora circa il 9% dei sustainability manager ha una laurea triennale in temi riguardanti la sostenibilità mentre il 15% ha frequentato un master specializzante. (fonte: Sustainability Career Compass 2022, l’Osservatorio periodico sulla professione condotto da Sustainability Makers in collaborazione con ALTIS Università Cattolica del Sacro Cuore, attraverso il coinvolgimento di 394 manager e professionisti della sostenibilità intervistati)
Per quanto riguarda le PMI, pensa che siano preparate ad accogliere i cambiamenti normativi in atto che portano a maggiori oneri di reportistica (CSRD), ma anche a incorporare una visione strategica che permetta di cogliere i cambiamenti?
Penso che le PMI si stiano preparando e che stia crescendo l’interesse di quest’ultime ai temi della sostenibilità. Il percorso di formazione riservato alle PMI lanciato quest’anno da Sustainability Makers, per esempio, ha raggiunto 110 iscritti e, considerando che questo tipo di imprese non sono tipicamente il target di riferimento dell’associazione, il buon riscontro è sintomo del fatto che si tratta di una proposta che intercetta una precisa esigenza.
Ritengo che la cultura imprenditoriale giochi un ruolo fondamentale nella capacità delle aziende di abbracciare la transizione. Nel contesto italiano, soprattutto quello delle tipiche imprese a conduzione familiare, ci sono alcuni elementi di sostenibilità sociale endogeni quali, per esempio, la vicinanza ai territori o la gestione orientata al benessere dei dipendenti, la cui rilevanza in ambito ESG deve solo essere individuata e riconosciuta.
Sugli aspetti ambientali, invece, come la rendicontazione e il controllo delle emissioni di gas serra, c’è meno sensibilità. Nell’ultimo anno, però, complice l’aumento dei costi energetici, si è assistito a un cambio di passo importante. La diffusione dell’auto-produzione di energia da fonti rinnovabili è cresciuta anche nel sistema imprenditoriale piccolo e piccolissimo il quale ha dovuto far fronte ad oneri imprevedibili sul bilancio che la dipendenza dalle fonti fossili ha comportato.
In merito all’implementazione della CSRD, credo invece che un ruolo importante lo giocheranno i commercialisti, tenuti a redigere i bilanci delle aziende di piccole dimensioni. Da questo punto di vista è incoraggiante constatare che quello dei professionisti della contabilità è un mondo in piena trasformazione che sta rispondendo in maniera positiva alla sfida normativa della sostenibilità. V’è un vicepresidente dell’Organo Nazionale dei Commercialisti delegato alla sostenibilità e si assiste a una tendenza specializzante dei professionisti del settore volta all’acquisizione di contenuti e competenze.
Lo sviluppo delle normative europee comporta degli sforzi di compliance che hanno costi. Qual è la visione e l’approccio dei sustainability manager?
Essere sostenibili comporta delle uscite finanziarie per il sistema produttivo. Il tema è se considerarle dei costi o degli investimenti. I sustainability manager tendono a classificarli come investimenti: è chiaro che ci sono voci di costo che sono più assimilabili a degli investimenti, come quelle legate al tema dell’efficienza energetica, mentre altre necessariamente sono percepite come spese, come l’aumento del pagamento della materia prima, dovuto all’incremento retributivo sulla filiera di fornitura. In questo caso lo sforzo è comunicativo e richiede talvolta un cambio di prospettiva. Infatti, anche l’incremento dei costi di produzione può essere considerato un investimento di medio-lungo periodo se si valuta come elemento che permette di garantire la continuità dell’approvvigionamento aziendale.
Penso sia pleonastico dire che operare in modo sostenibile non ha dei costi. Ma è necessario discutere e valutare nelle sedi opportune, e a seconda delle caratteristiche aziendali, se sono fini a sé stessi o se determinano un vantaggio competitivo in quanto contribuiscono a ridurre l’esposizione al rischio, diminuire i costi di transizione e/o aumentare l’appetibilità sul mercato.
Quali ritiene siano i maggiori risultati tangibili ottenuti in termini di miglioramento dell’ambiente, delle relazioni sociali e della governance, da quando la sostenibilità è diventata un impegno per aziende, finanza e istituzioni?
Le normative europee hanno mutato in maniera strutturale il modo in cui le imprese in Europa producono e commercializzano. Si è alzata l’asticella introducendo criteri di sostenibilità nei processi produttivi che stanno già avendo impatti significativi, sia ambientali, per esempio con la riduzione delle emissioni inquinanti, che sociali, in merito alla tutela dei diritti umani lungo la catena di approvvigionamento.
Inoltre, si è assistito a un cambiamento della cultura aziendale che è passata dall’essere shareholder-oriented a stakeholder-oriented. Questo modifica in maniera sostanziale l’approccio e la visione aziendale perché le imprese ora sono molto attente al giudizio dei portatori di interesse, aspetto questo fondamentale per garantire un operato realmente sostenibile.
È importante comprendere che quella della sostenibilità è una partita che coinvolge tutti e si può vincere solo insieme. La sfida del cambiamento climatico ne è un esempio: la singola impresa può porsi come abilitatore del processo di transizione, ma è necessario il supporto concreto dell’intero sistema per raggiungere un impatto duraturo. Gli obiettivi assunti devono essere raggiunti tramite il coinvolgimento di tutte le parti.
Sustainability Makers ha visto molti cambiamenti negli ultimi anni, dal cambio del nome alla trasformazione in ente del terzo settore. Quali sono le priorità che lei si prefigge ora, con la conferma di presidente per un nuovo mandato?
Essendo un’associazione di categoria con caratteristiche molto vicine a quelle di un ordine professionale e considerando che il livello di tecnicismo richiesto ai sustainability manager è aumentato, uno dei nostri obiettivi primari riguarda il costante aggiornamento dei nostri associati.
Garantire alta professionalità degli operatori della sostenibilità rientra, tra l’altro, nel ruolo sociale che Sustainability Makers ha come Ente del Terzo Settore. Infatti, professionisti competenti saranno in grado di implementare al meglio i fattori ESG all’interno delle imprese e, al contempo, di generare maggiori impatti positivi per la comunità e l’ambiente.
Intendiamo poi focalizzarci sull’aspetto dell’advocacy, soprattutto in ambito normativo. Le partite da giocare sono critiche ed è necessario che persone competenti facciano sentire la propria voce. L’Italia è stata molto silente da questo punto di vista e le poche risposte arrivate nella consultazione aperta sulla CSRD da parte del nostro Paese sono un esempio lampante. Questo ha smosso non poche critiche a livello europeo. È tempo quindi di cambiare rotta e dare il nostro contributo per garantire processi decisionali che siano efficaci.
Chi la accompagnerà nel raggiungimento di questi obiettivi?
Sarò accompagnata da tutto il Consiglio Direttivo dell’associazione che è stato di recente rinnovato, acquisendo quattro nuovi membri, Filippo Bocchi del Gruppo Hera, James Osborne di Lundquist, Ida Schillaci di Yamamay e Ylenia Tommasato di Bolton Group, e confermando Margherita Macellari di Accenture, Marco Stampa di Saipem, Claudia Strasserra di Bureau Veritas Italia, Davide Tassi di Enav.
Tra i punti di forza del nostro Consiglio Direttivo vi è l’interdisciplinarietà. Professioniste e professionisti da mondi molto diversi, dalla moda all’alimentare, dai trasporti all’energia alle multiutility, dalle certificazioni e alla consulenza strategica e alla comunicazione: una varietà di esperienze e percorsi in grado di arricchire ulteriormente il percorso strategico del network.
Avete presentato anche un report di impatto. Quali sono i principali risultati del vostro network?
L’anno scorso abbiamo presentato la prima valutazione d’impatto sul triennio 2019-2021. Sul tema prioritario della qualificazione dei professionisti di sostenibilità, in questi anni abbiamo realizzato 95 eventi per rafforzare le loro competenze, mentre per quanto riguarda la promozione della professione presso interlocutori esterni, abbiamo svolto 42 eventi aperti e 11 ricerche.
Infine, in relazione al nostro ruolo internazionale che ci vede in costante dialogo con l’estero, in questi tre anni abbiamo mantenuto il coordinamento della European Association of Sustainability Professionals (EASP) e la rappresentanza per l’Italia nel Global Network del World Business Council for Sustainable Development (WBCSD), un network essenziale per la crescita di consapevolezza delle industrie.