L’annuale conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP29) da poco conclusasi a Baku non è certo iniziata sotto i migliori auspici, con il neoeletto presidente Donald Trump che in campagna elettorale si è pubblicamente impegnato a ritirare l’adesione degli Stati Uniti dall’accordo sul clima di Parigi, il trattato che vincola i suoi firmatari affinché agiscano per combattere i cambiamenti climatici.
Ciononostante, durante le tredici giornate di lavori della COP29, i Paesi partecipanti hanno fatto il punto sulle iniziative messe in atto da governi, organizzazioni internazionali e privati, riuscendo alla fine a concordare un nuovo obiettivo finanziario di 300 miliardi di dollari all’anno per aiutare le nazioni più povere ad affrontare gli impatti del cambiamento climatico.
Inoltre, è stato raggiunto un accordo per l’attuazione dell’Articolo 6.4 del Trattato di Parigi, che stabilisce un mercato unico, indipendente e globale per i carbon credit (o crediti di emissione), accordo frutto del lavoro diplomatico portato avanti negli ultimi tre anni sotto la regia dell’ONU. I negoziatori hanno ratificato un quadro chiave per la creazione del nuovo mercato, che sarà regolato da un organo delle Nazioni Unite e che, quando raggiungerà la piena operatività, potrebbe sbloccare miliardi di dollari di finanziamenti.
Le critiche ai mercati per i crediti di emissione e l’accordo di Baku
L’Articolo 6 dell’Accordo di Parigi è uno dei più importanti del trattato, poiché è l’unico ad offrire a governi e privati gli strumenti per finanziare progetti a livello internazionale con l’obiettivo di ridurre le emissioni o preservare l’ecosistema, ricevendo in cambio dei “crediti di carbonio”, che possono essere utilizzati per compensare le proprie emissioni e raggiungere i propri obiettivi climatici. Questo sistema ha il vantaggio teorico di mobilitare risorse dai Paesi più inquinanti (che spesso sono i Paesi sviluppati, che devono raggiungere obiettivi di riduzione delle emissioni più ambiziosi) verso i Paesi in via di sviluppo, che hanno meno risorse e incentivi per intraprendere i progetti. Un secondo vantaggio, sempre in linea teorica, è quello di aumentare l’efficienza degli investimenti: un’economia avanzata potrebbe trovare più efficiente finanziare progetti di riduzione delle emissioni in Paesi terzi piuttosto che investire somme ingenti nella filiera domestica per ottenere benefici ambientali limitati. Politiche di questo tipo hanno avuto una certa efficacia quando applicate su scala regionale o nazionale, ma a livello internazionale, dove manca un’autorità legislativa centrale in grado di imporre un tetto ai crediti concessi, il meccanismo resta volontario e serve più che altro a favorire investimenti in progetti sostenibili.
Fino ad oggi, in base all’accordo di Parigi, i carbon credit potevano essere scambiati e compensati solo a seguito di accordi bilaterali tra Stati, spesso difficili da mettere in pratica o comunque criticati per la loro inefficacia o mancanza di integrità. Le situazioni più controverse si sono verificate soprattutto nel caso di programmi volontari di compensazione delle emissioni, dove i crediti vengono acquistati dalle aziende per perseguire obiettivi autoimposti di sostenibilità, compensando le proprie emissioni. A causa del crescente scrutinio sulla qualità dei progetti e delle accuse di greenwashing, le aziende si sono progressivamente distanziate dal mercato dei crediti di emissione. Di conseguenza, la domanda e i prezzi sono diminuiti, in particolare per le compensazioni basate su progetti di rigenerazione forestale. Il prezzo dei carbon credit è crollato e il valore del mercato volontario in alcuni casi si è ridotto del 61% solo nell’ultimo anno.
In questo contesto, l’accordo di Baku sull’istituzione di un mercato globale dei crediti di emissione dovrebbe contribuire a risolvere parte dei problemi. Nell’accordo sono presenti regole per migliorare l’integrità dei mercati di carbon credit, comprese metodologie per la valutazione della qualità dei progetti. La partecipazione al mercato ONU dovrebbe rappresentare una garanzia della qualità dei crediti, che potrebbe riavvicinare le aziende e ravvivare la domanda, con la possibilità di veder crescere il valore dei crediti e incentivare la riduzione delle emissioni. Inoltre, il fatto che il sistema non dipenda dalla partecipazione dei governi ne amplia ulteriormente l’attrattività. Non mancano le critiche: gli standard si sovrappongono in gran parte ai Core Carbon Principles esistenti, ma mancherebbero di metodologie specifiche per ciascun settore. Problemi tecnici irrisolti, come la pre-approvazione dei crediti e le misure per prevenire il doppio conteggio, potrebbero diventare barriere operative importanti. Nonostante i promotori della conferenza abbiano annunciato che l’accordo di Baku sarà sufficiente per far ripartire il mercato, secondo i critici mancherebbero ancora elementi per poter passare dalla teoria all’operatività. L’inaugurazione di un mercato globale rappresenterebbe un passo avanti significativo per il sistema dei carbon credit volontari. Secondo il capo negoziatore alla COP29, il risparmio monetario per il raggiungimento dei contributi determinati a livello nazionale (NDC) potrebbe raggiungere i 250 miliardi di dollari l’anno circa. Un passo piccolo ma decisivo, considerati i 6.500 miliardi di dollari annui stimati come necessari per raggiungere gli obiettivi del trattato di Parigi.
Il futuro nella sfida tra Cina e USA
Ai margini della conferenza ha tenuto banco il tema del possibile impatto della vittoria dei repubblicani negli Stati Uniti, che in campagna elettorale hanno promesso la marcia indietro sulle politiche “verdi” di Biden. Al di là dei proclami elettorali, occorre considerare che lo sviluppo dell’industria green, come dimostrano gli investimenti cinesi in energia verde, rappresenta un’indubbia opportunità. Per citare le parole del segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, “coloro che cercano disperatamente di ritardare e negare l’inevitabile fine dell’era dei combustibili fossili cercano di trasformare l’energia pulita in una parolaccia. Perderanno. L’economia è contro di loro”. Dal punto di vista diplomatico, però, non si può sottovalutare il riposizionamento degli Stati Uniti: ogni accordo significativo sul clima, incluso quello di Parigi, deve necessariamente passare per un’intesa tra Stati Uniti e Cina, che non solo è il Paese che attualmente emette di più, ma che ha anche recentemente supera l’Europa nelle emissioni storiche (e presto supererà gli Stati Uniti). La Repubblica Popolare è più impegnata che mai nell’attuazione degli obiettivi dell’Accordo di Parigi e negli ultimi anni si è imposta come leader globale nell’energia rinnovabile, investendo miliardi in progetti di transizione energetica sia a livello interno che nei Paesi in via di sviluppo. Questa strategia non solo contribuisce a combattere il cambiamento climatico, ma rafforza anche il posizionamento economico e geopolitico cinese. Le nazioni più povere, che cercano di abbandonare i combustibili fossili, guardano sempre più alla Cina come partner commerciale principale. Pechino, di converso, sta usando la diplomazia climatica per espandere la propria influenza economica, trovando nuovi mercati per le sue tecnologie verdi, come pannelli solari, veicoli elettrici e batterie, settori ormai divenuti centrali per il Dragone, che ora punta a dominare il mercato globale delle tecnologie sostenibili.
La nostra posizione sugli investimenti ESG
Dal punto di vista dei portafogli, per quanto seguiamo da vicino l’evoluzione del gioco diplomatico e valutiamo le conseguenze che questo potrebbe avere sui vari settori, la nostra visione di lungo termine sugli investimenti ESG non cambia. Pensiamo che l’attenzione alla sostenibilità negli investimenti resterà importante nel lungo termine e rappresenti un’ottima opportunità dal punto di vista finanziario. È importante, però, non limitarsi a investire nella transizione energetica, la cui performance di breve termine è più volatile e influenzata dalle decisioni politiche, ma anche ridurre la propria esposizione alle aziende controverse, escludendo quelle con controversie sociali o con elevata esposizione a ricavi da combustibili fossili, e ridurre i rischi legati ai fattori di sostenibilità, tra cui i rischi reputazionali, quelli legati alla difficoltà di gestire la transizione e i rischi fisici (come le alluvioni, che devastano l’economia di intere regioni). Moneyfarm si impegna ad aumentare la quota di investimenti sostenibili, che riguardano attività economiche che contribuiscono a obiettivi ambientali o sociali. A tal fine, investiamo anche in Etf su obbligazioni emesse da banche per lo sviluppo sostenibile e su Green Bond emessi da Stati o da aziende ad alto rating, volti a finanziare progetti che portano benefici ambientali. Tali asset class generalmente hanno un livello di volatilità estremamente inferiore rispetto agli investimenti in azionario tematico e quindi il rischio rimane relativamente più basso, sia per la loro natura obbligazionaria, sia per la loro diversificazione, sia per il merito creditizio degli emittenti. Infine, continueremo a monitorare e integrare nelle scelte di investimento il comportamento degli asset manager che esercitano i loro diritti di voto supportando risoluzioni ESG.