La ragione e il sentimento sono due intelligenze con le quali approcciamo il mondo circostante. La prima moderata e pragmatica, la seconda istintiva e inconsapevole. Ci sono campi in cui è meglio usare l’una piuttosto che l’altra, ma non sempre riusciamo a scindere le cose: capita, per esempio, che ragioniamo sull’amore e entriamo in ansia sul lavoro. Così mescoliamo ragione e sentimento in ciò che facciamo,
nonostante le nostre migliori intenzioni nel tenerle separate. Anche approcciando i mercati finanziari agiamo allo stesso modo.
Alla fine del 2019 prendeva forma il Green Deal europeo, un ragguardevole programma di investimenti volto a un obiettivo ben preciso: emissioni nette derivanti da gas serra pari a zero entro il 2050 in Europa. La parte razionale degli investitori si è attivata e molti flussi hanno cominciato a convergere verso quegli investimenti sostenibili, beneficiari del programma europeo.
Con l’arrivo della pandemia, e la conseguente caduta dei mercati finanziari, l’Europa ha ribadito con forza il suo programma green, mettendo sul piatto non solo gli investimenti iniziali, ma anche quelli relativi alla ripresa economica. Così maggiori fondi sono confluiti verso i prodotti ESG, iniziando a far salire i multipli delle società sottostanti. I prezzi sono arrivati a livelli eccessivi, dopo la vittoria di Biden e la promessa della Cina di giungere a emissioni nette zero entro il 2060. Sarà stata la speranza di un mondo più sostenibile, oppure semplice opportunismo, o la paura di mancare il rialzo di un settore euforico, ma quello che ha mosso i flussi ESG fino all’apice di gennaio scorso è stato forse più dettato dal sentimento che dalla ragione.

Nella prima parte di quest’anno, quell’euforia è andata scemando. Si è tornati a ragionare un po’ di più. Si è capito che nonostante gli investimenti cospicui da qui al 2050, le aziende impiegheranno del tempo per alzare la produzione e generare maggiori utili. Solo che, anche in questo caso, ci si è fatti prendere un po’ la mano: dopo una ragionevole riduzione dei prezzi delle società legate alle rinnovabili, si è arrivati a una vera e propria capitolazione, per un’ipotetica competizione agguerrita nel settore energetico, che eroderà gran parte dei margini inizialmente sperati. È vero che in questo campo entreranno molti più attori, ma sarà davvero una concorrenza così accesa?
Poiché si parla di energia, l’IEA (International Energy Agency), in previsione anche di COP 26 in programma a Glasgow a novembre, ha pubblicato lo scorso mese un report nel quale descrive il percorso che ci dovrebbe portare entro il 2050 a raggiungere emissioni nette zero a livello globale. I messaggi sono forti: nessun investimento in progetti con fonti fossili o centrali a carbone, stop alle nuove autovetture con motore a combustione entro il 2035 e settore elettrico globale a emissioni nette zero entro il 2040 (per chi volesse approfondire i dettagli: _https://www.iea.org/reports/netzero-by-2050_).
Dall’analisi è emerso che con le attuali mosse proposte dai vari governi non si avrebbe nessuna riduzione da qui al 2050, mentre il beneficio sarebbe solo del 35%, qualora gli stati che hanno promesso una diminuzione – più o meno totale delle proprie emissioni – mantenessero la parola. La causa delle limitate riduzioni è da ricercare nei Mercati Emergenti che, Cina e India in testa, raggiungeranno la neutralità oltre il 2050 o non la raggiungeranno affatto.
Pare quindi che per arrivare a un mondo a emissioni zero entro il 2050, siano necessari investimenti più cospicui di quelli pensati finora, con molte tecnologie fondamentali ancora da sviluppare. Senza tener conto che per raggiungere l’obiettivo dovrà essere consolidata la cooperazione tra paesi sviluppati ed emergenti, senza la quale dovremmo aspettare il 2090 per cantare vittoria.

Insomma, un bel mosaico dove tutti i pezzi devono combaciare alla perfezione. Sì, perché non basta dire di terminare gli investimenti in fonti fossili da ora, quando il mondo intero, paesi emergenti soprattutto, dipendono principalmente da questo idrocarburo per la loro crescita. E pare difficile che Africa o India si doteranno velocemente delle infrastrutture necessarie per poter utilizzare fonti rinnovabili in luogo del Petrolio. Non stupiamoci quindi se le grandi aziende petrolifere non solo trivelleranno a più non posso una volta terminata la pandemia (visto anche il prezzo del greggio), ma continueranno a cercare nuovi giacimenti. Di contro, non basta neanche dire di volere produrre tonnellate e tonnellate di idrogeno verde affinché le aziende oggi incaricate di farlo saranno in grado di far fronte a una simile produzione nel tempo prestabilito. E per quel che riguarda la cooperazione tra gli stati, basti pensare ai rapporti tra Stati Uniti, Cina, Iran e Corea del Nord. Guardando anche a casa nostra, già all’interno dell’Unione europea il solo Green Deal vede sempre qualche Stato membro o qualche organismo nazionale mettere i bastoni tra le ruote. Tutte cose superabili, forse, ma che probabilmente faranno slittare di un po’ i tempi di questa impresa.
Guardando con più razionalità, si può forse dire che c’è stata troppa euforia nel 2020, perché come abbiamo detto i tempi non saranno brevi e molti spigoli andranno smussati, ma c’è probabilmente anche un eccessivo timore ora, pensando che ci sia una guerra dei prezzi in un settore che forse non è neanche in grado di far fronte alla domanda. E fosse anche vero, chi se la sentirebbe di sostenere questa tesi al punto tale da rimanere fuori da quella che si preannuncia una delle più grandi trasformazioni della storia?