Tra le prime 100 società di piazza Affari, sono solo 16 quelle sufficientemente attrezzate per rispondere alle sfide degli obiettivi climatici. Il dato emerge dallo studio Net Zero Readiness Index 2022 presentato da Carbonsink all’Italian Sustainability Week di Borsa Italiana di cui ESGnews è Media Partner, che ha esaminato la completezza degli inventari di emissioni di gas serra, target emissivi e strategie di gestione delle emissioni residue delle prime 100 aziende per capitalizzazione quotate in Borsa negli indici FTSE MIB e FTSE Italia Mid Cap.
Carbonsink, da Gennaio 2022 parte di South Pole con cui forma il più grande gruppo al mondo per soluzioni climatiche e progetti di mitigazione, è una società di consulenza leader in Italia nello sviluppo di strategie e gestione dei rischi climatici, il cui ruolo oggi assume un’importanza sempre più rilevante alla luce dell’evidente emergenza sul clima. Nonostante i segnali positivi e l’incoraggiante progresso mostrato dalle aziende italiane negli ultimi anni, infatti, come emerso dallo studio, le aziende non sono ancora sufficientemente preparate ad affrontare un percorso di decarbonizzazione allineato agli obiettivi internazionali dell’Accordo di Parigi.
L’analisi evidenzia tre importanti sfide che le aziende italiane devono affrontare per accelerare la loro preparazione ad un’economia a basse emissioni: implementare la misurazione delle emissioni indirette, che rappresentano fino al 90% delle emissioni totali di un’azienda, aumentare le ambizioni dei target di riduzione delle emissioni e diventare proattivi nella gestione delle emissioni residue. “Nonostante esistano strumenti per bilanciare le emissioni aziendali residue, la grande maggioranza delle aziende campione non li utilizza. L’80% delle aziende campione, infatti, non compensa ancora le proprie emissioni”, ha affermato Andrea Maggiani, fondatore e Managing Director di Carbonsink, in questa intervista in cui fa il punto sulle strategie di decarbonizzazione delle aziende italiane.
La fotografia realizzata da Carbonsink insieme a Borsa Italiana sulla preparazione delle aziende italiane sul fronte della decarbonizzazione mostra luci e ombre. C’è ancora molta strada da fare?
L’obiettivo del Net Zero Readiness Index 2022, più che esprimere un giudizio, è capire a che punto sono le aziende nel percorso intrapreso per dotarsi degli strumenti necessari ad affrontare il tema della decarbonizzazione. L’indagine serve a evidenziare se le imprese hanno avviato il processo ecosa stanno facendo per migliorare. La fotografia emersa dall’analisi può apparire negativa, ma solo se ci si ferma al numero assoluto delle aziende più mature. Se si inserisce questo dato in prospettiva, invece, si nota che l’impegno da parte delle aziende sta crescendo. Le imprese italiane, infatti, stanno cercando di colmare la distanza rispetto ad altri Paesi europei più avanti nel percorso, come la Germania. C’è un meccanismo di accelerazione. Un dato incoraggiante è per esempio il numero di aziende che si sono prefissate un target di riduzione delle emissioni approvato dalla Science-Based Targets initiative (SBTi): nel 2019, in Italia, solo due aziende ne erano in possesso, mentre a settembre 2020 erano già 41, a cui si aggiungono altre 22 aziende che si sono impegnate pubblicamente a fissare un target basato sulla scienza di SBTi entro 24 mesi. Inoltre, la curva di crescita è più ripida rispetto al resto d’Europa e il gap con gli altri Paesi europei nel campo degli impegni science-based si sta riducendo. o
D’altra parte permangono ancora importanti sfide come quelle della misurazione e gestione delle emissioni indirette lungo la filiera, la cui difficoltà risiede nel fatto che per calcolarle è richiesto un forte engagement con tutta la catena del valore. Inoltre, rispetto al contesto europeo, sono poche le aziende che agiscono sulle emissioni residue. I passi verso la decarbonizzazione sono infatti dapprima la riduzione e poi la gestione delle emissioni residue, quella parte di emissioni che non possono ancora essere evitate, adottando strumenti di compensazione come la climate finance dei crediti di carbonio.
Siamo lontani dal contenere l’aumento delle temperature entro 1,5 gradi come previsto dall’Accordo di Parigi. Avete calcolato verso quale aumento della temperatura porterebbero gli attuali modelli di attività delle principali aziende italiane?
Sì, siamo intorno ai 2,5 gradi in media di aumento rispetto a livelli pre-industriali. Quindi ancora lontani. Tuttavia, è un dato in divenire che potrebbe modificarsi in modo positivo qualora le aziende accelerassero il loro percorso di decarbonizzazione adottando target di riduzione delle emissioni più ambiziosi e più in linea con quanto previsto dall’Accordo di Parigi.
Sono piuttosto ottimista sulla capacità delle aziende di raggiungere questi target, sperando che però la crisi energetica attuale non freni questa spinta.
Teme quindi che la crisi energetica potrà bloccare i progressi in atto?
Per una transizione ordinata e strutturata nel tempo da fonti fossili a quelle più rinnovabili è fondamentale un impegno collettivo di policy maker nazionali. È necessario facilitare lo sviluppo di impianti per le rinnovabili nel breve termine. Va tuttavia tenuto presente che nel percorso verso il Net Zero probabilmente si realizzerà un mix energetico che include anche una percentuale di combustibili fossili, stimati per circa il 20% anche a regime. Quindi è importante tenere a mente che quando si parla di emissioni nette pari a zero, una parte di emissioni ci sarà ancora ma dovrà essere compensata.
Quali sono i settori più avanti nel processo?
Non è un caso che i settori più energivori siano più avanti nell’affrontare il tema della decarbonizzazione. In Italia il comparto delle utility è sicuramente quello che ha iniziato a prepararsi prima alla sfida climatica. Settori carbon intensive come quello delle utilities sono esposti ad una spinta normativa e di mercato molto forte e agiscono di conseguenza. La performance climatica aziendale sta diventando però strategica anche per altri settori come la moda e l’agroalimentare, che, seppur più lentamente, hanno cominciato a muoversi.
In un tessuto produttivo come quello italiano caratterizzato da PMI e anche microimprese, gli adempimenti necessari a rispondere alle richieste dei partner commerciali che misurano le emissioni della filiera produttiva Scope 3 non rischiano di tagliare fuori le aziende più piccole?
In Italia, come detto, il punto più problematico sono le emissioni indirette. Le linee di guida dell’SBTi (Science-Based Targets initiative) prevedono il coinvolgimento dei fornitori nel conteggio e nella riduzione delle emissioni. Pertanto, le aziende più virtuose stanno cercando di lavorare nella raccolta di dati e nell’engagement con gli stakeholder che partecipano alla filiera produttiva. Quindi, succede anche che le aziende più piccole subiscano la pressione delle multinazionali che monitorano le emissioni della filiera.
Anche le PMI vengono coinvolte in questo processo. Sempre più micro e medie imprese ci contattano per sostenerle nella definizione di target e strategie climatiche. Qui il lavoro è più complesso perché spesso queste aziende sono ancora all’inizio del loro percorso di sostenibilità e mancano strutture e know-how.
Per questo Carbonsink sta investendo molto sulla digitalizzazione e l’automazione attraverso strumenti che permettano di supportare le aziende nella fase di raccolta e di aggregazione dei dati con soluzioni adatte anche ai piccoli medi fornitori.
È infatti molto importante proseguire nel sostegno alle PMI, aiutandole a dotarsi degli strumenti per fornire informazioni sulle emissioni del loro processo produttivo.
Al livello attuale di emissioni residue quanto dovrebbero investire le aziende quotate per compensare le proprie emissioni attraverso progetti di mitigazione?
I prezzi di riferimento dei crediti di carbonio – attraverso i quali si finanziano progetti di mitigazione – oggi sono in forte aumento, per via della grande pressione derivante dall’incremento della domanda. È dunque difficile quindi fare una stima. È un mercato che nasce come segmento di nicchia, ma a fronte del sempre maggiore numero di aziende che si dotano di target climatici, deve crescere velocemente per soddisfare le richieste. Secondo uno studio della società di consulenza McKinsey, il mercato volontario dei crediti di carbonio dovrebbe crescere di almeno 15 volte da qui al 2030. Parliamo di una grandissima sfida anche per il mercato stesso che deve espandersi a ritmi consistenti, con il rischio che si crei una sorta di collo di bottiglia nella capacità di definire nuovi progetti. Anche gli enti stessi che certificano i progetti sono di fronte a un notevole aumento del carico di lavoro.
D’atro canto possiamo leggere come positivo il fatto che i prezzi salgano, perché ciò permette di investire in nuove soluzioni rendendo economicamente sostenibili progetti precedentemente non facilmente realizzabili. Si stima che i prezzi nel 2030 si attestino oltre i 100 euro per tonnellata di CO2, questo permetterebbe di realizzare molte nuove iniziative. l
A questo riguardo a maggio abbiamo lanciato il progetto NextGen CDR (Carbon Dioxide Removals, ndr) Facility con l’obiettivo di coinvolgere aziende virtuose disposte a finanziare progetti estremamente innovativi, che oggi difficilmente avrebbero un mercato per un tema di costi, che arrivano fino a 600 euro per tonnellata.
L’innovazione rappresenta infatti la premessa necessaria per raggiungere il Net Zero al 2050.
Ritiene che il ritardo mostrato delle aziende italiane in termini di decarbonizzazione sia legato più a un tema culturale o a difficoltà oggettive?
Credo che sia semplicemente un tema di maturità, negli altri Paesi hanno iniziato prima e sono avanti, noi stiamo colmando il gap, è solo una questione di tempo.
Può ricordarci le cinque azioni suggerite alle aziende nel vostro Net Zero Readiness Index 2022 per colmare il ritardo nell’allineamento agli obiettivi di Parigi?
Ci sono diversi passaggi da affrontare. Bisogna partire dall’avere una chiara consapevolezza del proprio inventario, cioè delle proprie emissioni (comprese quelle indirette lungo la filiera). Tutto questo unitamente ad una misurazione più completa possibile. Capire come costruire dei target di riduzione ambiziosi e in linea con la scienza del clima, individuando l’investimento necessario per colmare il gap. Prendersi la responsabilità delle emissioni residue, ad esempio compensandole attraverso i crediti di carbonio certificati per finanziare progetti di mitigazione climatica, ma anche iniziare ad investire in tecnologie per la rimozione della CO2 sarà critico. Infine, l’aspetto che sembra più semplice, ma che diventerà sempre più importante, è la comunicazione corretta, al fine di evitare il greenwashing. Una comunicazione chiara e trasparente è essenziale.