Gli immigrati sono una risorsa per il Paese. Occorre, però, cambiare la prospettiva sui flussi migratori, che sono inevitabili ed essenziali per lo sviluppo delle economie del Vecchio Continente e rappresentano una risorsa per compensare la tendenza al calo demografico aumentando la produttività, a patto che siano accolti con politiche di integrazione avanzate.
A dirlo non è un’organizzazione non governativa, ma Mediobanca, uno dei principali pilastri del sistema finanziario e industriale del Paese, che ha presentato un approfondimento dell’Area Studi durante la conferenza “Migrazioni e inclusione – L’accoglienza dei minori stranieri” nel corso della prima Corporate Social Responsibility Conference dedicata al tema dell’accoglienza dei minori non accompagnati in Italia, aperta da Giovanna Giusti del Giardino Head of Group Sustainability di Mediobanca.
All’incontro hanno partecipato Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati e Chiara Cardoletti, Rappresentante UNHCR per l’Italia la Santa Sede e San Marino e si sono confrontati in una tavola rotonda Erasmo Figini, Fondatore Cometa, Fra Marcello Longhi, Presidente Opera San Francesco per i Poveri, Mariavittoria Rava, Presidente Fondazione Francesca Rava – NPH Italia ETS, moderati da Ferruccio de Bortoli, Presidente Fondazione Corriere della Sera.
“La vulnerabilità di chi vive la condizione di minore non accompagnato in Italia richiede attenzione e cura da parte delle istituzioni, degli operatori del terzo settore, delle imprese e di tutti i cittadini” ha osservato Alberto Nagel, Amministratore delegato di Mediobanca, “questi giovani, che arrivano nel nostro Paese senza il supporto delle proprie famiglie, rappresentano una delle sfide più complesse e delicate del nostro tempo. Supportarne l’inclusione è un modo di affermare la dignità della persona, e, al tempo stesso, di lavorare per una società coesa e più ricca. Senza dimenticare che i migranti possono attivare una maggiore crescita economica a beneficio dei Paesi ospitanti ”. E il ruolo di Mediobanca si esplica su un duplice piano. Da una parte come think tank economico che analizza i dati con un rigore scientifico e dall’altra come soggetto attivo dal punto di vista dell’impatto sociale, grazie alle diverse collaborazioni con enti del terzo settore e il contributo dei propri volontari aziendali.
I numeri presentati da Gabriele Barbaresco, Direttore Area Studi Mediobanca, parlano chiaro. Le proiezioni dell’Istat per il 2050 evidenziano che in Italia il saldo naturale medio annuo tra nascite e morti sarà negativo per 360.000 persone. A fronte di questo saldo naturale negativo, il saldo migratorio netto sarà positivo per 195.000 unità, un numero insufficiente a compensare completamente il calo della natalità, pur riuscendo a coprirne oltre il 50%. Bisogna inoltre considerare che il numero di 195.000 unità non tiene conto anche del fenomeno dell’emigrazione: circa 145.000 giovani italiani lasciano l’Italia ogni anno.
Questi due fenomeni evidenziano il ruolo compensativo della migrazione rispetto alle dinamiche demografiche, la cosiddetta migrazione di rimpiazzo.
Tuttavia è riduttivo parlare della migrazione come di un fenomeno omogeneo e compatto, affrontandolo solo nei termini compensativi tipici dei demografi.
Le motivazioni alla base dei flussi migratori sono infatti molteplici: si va dalla ricerca di lavoro a ragioni familiari, dai rifugiati ai minori migranti. È importante analizzare queste dinamiche in maniera distinta.
Concentrandosi sui due principali motivi di migrazione, ovvero il lavoro e la famiglia, e osservando cosa è accaduto nell’Unione Europea negli ultimi 10 anni, emerge un dato interessante. Considerando le sei principali economia, tra cui Italia, Francia e Germania, vediamo che il 40% degli ingressi riguarda motivi familiari, mentre solo il 15% è legato a motivi lavorativi. Al contrario, negli altri 21 Paesi dell’Unione, con economie più piccole e tradizioni di accoglienza più recenti, il quadro si inverte: il 57% degli ingressi avviene per lavoro e solo il 14% per motivi familiari.
Questo dato suggerisce che le politiche migratorie non possono essere standardizzate, poiché ogni Paese affronta sfide specifiche. Inoltre i migranti tendono ad assimilare i costumi e gli stili di vita dei paesi che li ospitano.
Un esempio significativo riguarda i tassi di natalità. Dal 2004, il tasso di natalità tra gli stranieri in Italia è sceso da 24 nati ogni 1.000 stranieri a 10, mostrando che anche i migranti risentono del calo demografico. Questo fenomeno evidenzia come i migranti tendano ad assimilare i trend demografici del Paese ospitante.
Un altro aspetto cruciale riguarda la formazione. È noto che i Paesi con una popolazione più istruita attirano migranti con un livello di istruzione più elevato. In Italia, purtroppo, solo il 13% degli immigrati possiede una formazione terziaria, il dato più basso in Europa, e ciò riflette anche il basso livello di istruzione terziaria tra i nativi.
Un tema altrettanto complesso è l’impatto economico dei migranti. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, i migranti economici, ovvero coloro che si spostano per motivi lavorativi, contribuiscono a un aumento del PIL di quasi l’1% dopo cinque anni dal loro arrivo. Tuttavia, l’impatto economico dei rifugiati è molto più modesto, spesso nullo, ma le politiche di integrazione possono fare la differenza.
Studi del FMI mostrano che politiche di integrazione strutturate potrebbero aumentare significativamente il contributo dei rifugiati al PIL, passando da uno 0,15% a oltre l’1,3%, in caso di politiche più sostanziali. Tuttavia, tali politiche hanno un costo iniziale elevato, sia finanziario sia politico, e richiedono tempo – almeno un decennio – per produrre effetti positivi.
A livello internazionale, le best practice si concentrano su Paesi come Germania, Danimarca e Scandinavia, che combinano accoglienza e politiche di integrazione per massimizzare il contributo economico dei migranti. Modelli come quello canadese e svedese dimostrano come sia possibile ridurre gli indici di dipendenza demografica (per esempio rapporto tra popolazione over 65 e popolazione attiva o tra popolazione attiva e non attiva), favorendo al contempo la crescita economica.
Il caso italiano, però, presenta specificità uniche. Nonostante in Italia i migranti abbiano una probabilità di trovare lavoro simile a quella dei nativi, ciò avviene principalmente in settori a bassa qualificazione. Inoltre, la seconda generazione di migranti continua a presentare un deficit formativo, perpetuando un circolo vizioso che limita il loro contributo economico e sociale.
In conclusione, l’Italia si trova a fronteggiare una sfida doppia: da un lato, migliorare le opportunità di integrazione per i migranti, dall’altro, superare le proprie carenze strutturali, come la scarsa formazione e l’offerta limitata di lavori qualificati. Solo così sarà possibile trasformare il fenomeno migratorio in un volano di sviluppo economico e sociale.