Ventiquattro barre luminose a LED che cambiano colore e intensità a seconda del livello di inquinamento dell’aria. Questa è Milano Breath (Milano Respira), l’installazione immersiva dell’artista e ricercatore dello IAAC (Institute for Advanced Architecture of Catalonia) Cristan Rizzuti ospitata negli spazi della 24ORE Business School in Via Monte Rosa 91 durante la Milano Design Week e promossa da Axa IM. “La luce è la mia materia” spiega l’artista che in questo lavoro ha analizzato i dati di quattro inquinanti atmosferici (PM2.5, PM10, CO e NO2), rilevati da 24 stazioni di monitoraggio della qualità dell’aria della città meneghina, e li ha trasformati in luce.
“I dati sono invisibili e comprensibili per lo più agli addetti ai lavori” ha raccontato Rizzuti in questa intervista a ESG News, “volevo che diventassero concreti e accessibili a tutti”. È, infatti, un ruolo attivo quello dello spettatore che in Milano Breath ha la possibilità di camminare su una mappa della città a pavimento e osservare e percepire in maniera tangibile e luminosa l’inquinamento di Milano.
D’altro canto, il legame tra rappresentazione artistica e ricerca scientifica è consolidato nella visione di Rizzuti che spesso nelle sue opere fa parlare la scienza e racconta in modo semplice la complessità della contemporaneità. L’arte, infatti, secondo l’artista campano trapiantato a Barcellona, “permette di poter parlare alle persone. In tutte le sue forme – dalla pittura classica, al fumetto, alla scultura, al cinema e alla musica – è uno dei mezzi più potenti per poter arrivare a tutti e tutte”.
Milano Breath visualizza il “respiro della città” e rende tangibili i dati delle stazioni di monitoraggio della qualità dell’aria di Milano. Da dove viene l’idea dell’installazione e come ha operato per realizzarla?
L’installazione Milano Breath, presentata per la Milano Digital Week, prende ispirazione da Barcellona Breath realizzata tre anni fa nella capitale catalana. L’opera è stata pensata da subito affinché potesse essere riprodotta su diverse scale e applicata a differenti città metropolitane nel mondo. L’idea è quella di un progetto che possa essere versatile e possa vivere e sopravvivere nel tempo, riadattandolo all’area geografica e allo spazio in cui si insedia, prendendo di volta in volta forme diverse.
Fulcro del lavoro sono i dati opensource prodotti dalle stazioni di monitoraggio della qualità dell’aria presenti in 24 punti della città meneghina. I dati intangibili sull’inquinamento acquisiscono concretezza e diventano visibili attraverso 24 barre a luci LED customizzate che emettono gradienti di luce dal blu al rosso a seconda dell’intensità dell’inquinamento in quell’area.
I valori che ho preso in considerazione sono le emissioni medie giornaliere di particolato (PM2.5 e PM10), monossido di carbonio (CO), e biossido di azoto (NO2), responsabili appunto dell’inquinamento in città. Ho combinato i dati in serie storica su due anni (pre e post pandemia) di questi quattro inquinanti con altre due variabili, la temperatura e l’NDVI (Normalized Difference Vegetation Index), per esplorare e analizzare le connessioni tra l’inquinamento e l’aumento delle temperature, da un lato, e la presenza di vegetazione nell’area considerata, dall’altro.
L’intento è quello di raccontare una storia pervadente che ci interessa da vicino ma su cui non sempre ci soffermiamo. Soprattutto mi interessa trasformare la complessità dei dati, che in questo caso ci informano sulla qualità dell’aria che respiriamo nelle nostre città, in qualcosa di decifrabile per tutti – e non solo per gli addetti ai lavori.
Ho sviluppato personalmente la parte elettronica delle barre in quanto mi interessava che la luce fosse emessa a 360 gradi per far sì che i fruitori dell’opera potessero viverla a pieno, osservandola da diversi punti di vista, immergendosi e camminandoci intorno, proprio come si osserva una città. L’elemento audio poi insiste sul concetto di sinestesia, su cui mi piace lavorare molto: l’idea, ovvero, che la persona entri all’interno dell’installazione e la viva come un’esperienza immersiva, quasi un momento di meditazione e contemplazione, lasciandosi suggestionare dai diversi input che dai differenti punti riceve.
La sua ricerca artistica dialoga spesso con la scienza e la matematica. Eppure, spesso questi due mondi sono percepiti lontani dall’opinione comune. Quali sono le connessioni tra arte e scienza?
Credo che il dialogo tra arte e scienza ci sia sempre stato, a partire dalle forme artistiche classiche. Gli scultori duemila anni fa studiavano anatomicamente e scientificamente i corpi prima di realizzarli e allo stesso modo nella pittura: per esempio nell’utilizzo della miscela di un colore sui materiali, è necessario conoscere le proprietà di questi per lavorarci e/o quali reagenti usare per ottenere la resa migliore.
C’è una forte connessione tra arte e scienza in cui, inoltre, penso che la prima possa essere utilizzata anche per dare voce alla seconda in maniera più semplificata e accessibile a tutti.
Nella mia storia, poi, questi due mondi sono molto connessi. Dopo il liceo scientifico ho studiato all’Accademia di Belle Arti intraprendendo quello che era il percorso di New Media Art (Ora NTA, New Technology Art) e da subito ho capito che mi interessava un tipo di arte che avesse una ricerca profonda alle spalle, non solo concettuale ma anche scientifica.
Per me, il cui medium è la luce che uso per dare volume alle idee e alla creatività, è imprescindibile il legame tra rappresentazione artistica e ricerca scientifica. Questo dialogo si palesa nella mia poetica alla cui base ci sono spesso dati intangibili che acquisiscono concretezza e forma attraverso i miei lavori. È il caso della serie Breath, ma è per me quasi una prassi.
In Punti di fuga, per esempio, ho analizzato i dati riguardanti i flussi migratori dell’agosto 2019 a livello mondiale che sono stati trascritti poi in real time su tela da un sistema robotizzato. In particolare, il risultato è stato un trittico che rappresentava i flussi mondiali, quelli dall’Africa al Sud Europa e da quest’ultima verso il Nord Europa. Per arrivare alla performance del robot che crea la partitura grafica divisa in tre atti, il lavoro di analisi e ricerca pregresso è durato due mesi: ho studiato gli spostamenti in aereo, in autobus e per mare, ho effettuato un’analisi sul numero di persone transitate in quel mese in alcune città e su quante hanno perso la vita durante tali spostamenti. A ciascuna di tali variabili ho assegnato un codice grafico (punto, linea retta, linea curva) riprodotto poi dal robot.
Il risultato finale è quindi un quadro colorato fatto di simboli, quasi un Kandinsky moderno, ma dietro quella rappresentazione c’è una storia fatta di numeri che raccontano fenomeni della nostra realtà contemporanea.
Ci troviamo oggi in una situazione emergenziale legata alla crisi ambientale – ma anche sociale. Pensa che l’arte possa giocare un ruolo? Quale?
La crisi ambientale è ormai sotto i nostri occhi e gli impatti del cambiamento climatico sono evidenti, per questo non è più possibile ignorare il problema. La nostra generazione è inevitabilmente chiamata a prendere atto di questa crisi e agire, responsabilizzandosi. Tutti hanno un ruolo da giocare, quindi anche gli artisti che possono essere esempi di una mentalità più attenta agli impatti e all’utilizzo delle risorse.
Nelle mie installazioni cerco di ottimizzare l’uso dell’energia, usando per esempio luci a LED a ridotto consumo energetico e optando – ove possibile – per un’alimentazione da energie rinnovabili. Scelgo poi materiali che abbiano un basso impatto ambientale negativo e che possano essere riciclati o essere reimmessi all’interno del mio processo creativo.
Penso poi che, in generale, ci si possa – e forse debba – servire dell’arte per poter parlare alle persone. L’arte, infatti, in tutte le sue forme – che vanno dalla pittura classica, al fumetto, alla scultura, al cinema e alla musica – è uno dei mezzi più potenti per poter arrivare a tutti e tutte.
Da questo punto di vista credo che i social media possano essere dei buoni alleati per poter parlare del problema soprattutto alle nuove generazioni. Sui social, per esempio, è possibile condividere e raccontare azioni artistiche che hanno luogo in tutto il mondo. Questo offre l’opportunità di creare e unire una community globale sensibilizzata all’argomento che può fare da megafono su tematiche che non riescono ad emergere con altre forme di medium meno recenti – tipo la televisione.
Il suo impegno in ambito ecosostenibile è evidente anche in Robotic Urban Farmer, il progetto di ricerca dello IAAC che ha partecipato alla Biennale di Architettura a Tallin e a cui ha collaborato..
Robotic Urban Farmers è un progetto sviluppato dallo IAAC assieme ad Areti Markopoulou e Alexandre Dubor ed alcuni studenti, che esplora il futuro del nostro habitat urbano, dove uomini, piante e robot convivranno in simbiosi nelle città.
L’installazione fisica presentata alla Biennale estone propone un nuovo sistema di facciata che integra agenti robotici e piante commestibili ed è realizzato con materiale che trasforma la CO2 in ossigeno. È un giardino verticale che vuole diventare il manifesto di un nuovo organismo architettonico capace di migliorare l’ambiente urbano, generando cibo fresco e locale e rafforzando il microclima delle città e la biodiversità.
Robotic Urban Farmers è dotato di due robot: il primo ha una sensoristica che scannerizza durante il giorno, in diversi momenti, il muro verticale e capta le esigenze delle piante, inviando informazioni al secondo che è un attuatore e se ne prende cura, dando, per esempio, più acqua o nutrienti in base ai dati ricevuti.
L’intento è quello di superare le criticità legate agli alti costi di mantenimento degli edifici ecosostenibili dotati di vegetazione sulle facciate grazie a un sistema robotico che lavora in real time.