Le aziende che non si adattano alla transizione sono destinate a fallire, prima o poi. È questo il mantra di Victoria Hurth, Fellow of University of Cambridge’s Institute for Sustainability e tra i maggiori esperti in materia di sostenibilità a livello mondiale. Nonostante il suo background prettamente accademico, Hurth è infatti un’esperta di modelli aziendali sostenibili, tanto è vero che ha co-diretto lo sviluppo quinquennale del primo standard ISO globale sulla governance delle organizzazioni (ISO 37000:2021). Inoltre, vanta un’esperienza di oltre 20 anni nel marketing e nella sostenibilità aziendale, avendo lavorato precedentemente nei dipartimenti dedicati di aziende come Accenture.
Secondo Hurth, per far sì che il sistema economico non collassi le aziende devono essere “purpose-driven”, ovvero orientate a uno scopo. Solo così saranno in grado di cogliere le sfide del nostro tempo per attuare il progresso verso la transizione e di ripensare la propria cultura. È proprio per questa sua visione innovativa che SACE, il gruppo assicurativo-finanziario controllato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha organizzato un workshop a porte chiuse con l’esperta, al fine di individuare le strategie chiave per l’ente per sostenere le imprese italiane verso la transizione ecologica, giusto a ridosso del lancio del proprio piano industriale per il prossimo triennio che mette export, sostenibilità e PMI al centro della strategia.
In un’intervista a ESGnews, Victoria Hurth ha approfondito questi temi attraverso una lettura internazionale delle problematiche che riguardano tutti i sistemi produttivi.
Quale pensa possa essere il catalizzatore per accelerare la transizione?
La questione ambientale e la decarbonizzazione sono solo due degli aspetti che costituiscono la sostenibilità (e non credo che la società ne sia consapevole fino in fondo). L’insostenibilità, infatti, coincide con i problemi che minacciano il benessere a lungo termine di tutti, legati anche alla sfera sociale e della governance.
Da un punto di vista energetico l’insostenibilità del nostro sistema è visibile in diversi modi. Innanzitutto, si esprime attraverso i problemi legati all’uso dei combustibili fossili, quindi da dove prendiamo l’energia. Le principali problematiche connesse ai combustibili fossili sono l’inquinamento atmosferico, l’acidificazione degli oceani, il cambiamento climatico, ma anche l’instabilità geopolitica.
Quando si parla di decarbonizzazione, bisogna riconoscere che i grandi temi come il cambiamento climatico hanno un impatto su molte altre questioni, come ad esempio la perdita di biodiversità o la disuguaglianza sociale. Aspetti che non verranno risolti dal processo di decarbonizzazione. Per avere degli effetti positivi su questi problemi, è necessario ripensare al modo in cui vengono utilizzate l’energia e le risorse in generale.
Pertanto, sebbene non creda che la decarbonizzazione sia l’unico elemento su cui agire, ritengo che possa sbloccare la nostra capacità di trasformare il sistema per arrivare ad affrontare i problemi collaterali, come la perdita di biodiversità, che sono ben più complessi da contrastare.
A mio avviso, quindi, il catalizzatore deve essere la piena comprensione di tutte le sfide che dobbiamo affrontare nel loro complesso. Forse trent’anni fa si sarebbe potuto prendere in considerazione una problematica alla volta, ma oggi si è consapevoli del fatto che la finestra temporale si sta chiudendo, quindi, un approccio sistemico e olistico nell’affrontare le minacce attuali si rende necessario.
Eppure, il sistema su cui si sono basate finora le economie globali non ha preso in considerazione i problemi ora più urgenti. Nella scelta di come allocare le risorse, che è il cardine su cui si basano tutti i sistemi economici, fino ad oggi è stata seguita la via più semplice cioè ottimizzare principalmente gli interessi finanziari, dando per scontato che così facendo anche il benessere di tutta la società fosse ottimizzato.
È stato dato troppo peso agli aspetti finanziari nei modelli economici?
Concentrandosi sulla massimizzazione del capitale finanziario i governi e le aziende non si sono curati di calcolare i costi del sistema che hanno costruito, agendo come se le risorse fossero illimitate. Considerando che il pensiero economico si è basato su questo assunto per oltre 70 anni nei quali ha continuato ad espandersi, non desta meraviglia che oggi ci si trovi di fronte a sfide globali che minacciano l’esistenza e la sostenibilità del sistema economico.
Se finora il benessere è stato misurato semplicemente in termini di PIL a livello nazionale e di redditività finanziaria a livello aziendale, al fine di attuare il cambiamento è ora fondamentale fare le cose in modo diverso. Con la maturazione di questa consapevolezza, si sono diffuse sempre di più le organizzazioni purpose-driven, soprattutto in seguito alla crisi del 2008, quando le persone e le società hanno iniziato a porsi domande relative al valore del denaro e del sistema economico che non si erano mai fatte prima.
Per essere orientata ai propri obiettivi, un’azienda deve partire dalle seguenti domande: da dove vengo, dove mi trovo e qual è la direzione che intendo intraprendere.
Quali sono i passi più urgenti che le aziende dovrebbero compiere e quali suggerimenti pratici può dare loro per trasformare i modelli di business al fine di raggiungere gli obiettivi di sostenibilità?
È tutta una questione di motivazione. Un’azienda deve avere ben chiaro qual è il proprio punto di vista e quali sono gli scopi che stabilisce perché è un presupposto fondamentale per capire come agire nel mondo. Se ad un’organizzazione manca questa capacità non sarà in grado di allinearsi ai criteri di sostenibilità.
Un dato positivo è che diverse aziende stanno cambiando la propria cultura per garantirsi la sopravvivenza a lungo termine, rendendosi più sostenibili sia da un punto di vista ambientale che sociale. E questo non più soltanto come conseguenza della pressione degli stakeholder, ma sempre più su base volontaria.
Il cambiamento culturale rappresenta un passaggio fondamentale per l’affermazione della motivazione di un’azienda, nonché un processo indispensabile per far sì che le strategie aziendali siano orientate sempre di più al servizio degli altri.
Caratteristica peculiare di un’organizzazione orientata allo scopo, infatti, è che l’innovazione, gli investimenti e l’allocazione dei capitali sono a servizio del benessere della società. Questo sistema innesca anche un altro passaggio cruciale: il successo di un’azienda di questo tipo è connesso a quello dei dipendenti e degli stakeholder, che coincide in ultimo con il benessere a lungo termine per tutti. In questo senso, quindi, c’è un allineamento tra l’obiettivo finale dell’economia e la definizione stessa di sostenibilità.
In questo contesto, le aziende devono anche stabilire gli obiettivi e preparare piani concreti e immediati per raggiungerli. Solo così si può creare un intero sistema di responsabilità, che dimostra la serietà dell’organizzazione, basato su una trasparenza totale che viene garantita da una corretta ed esaustiva rendicontazione. E così facendo si rende anche il sistema più efficiente, perché la trasparenza si riflette su tutte le altre parti interessate. Va da sé che questi obiettivi devono essere allineati agli SDGs delle Nazioni Unite e a tutti i fattori ESG.
Solo raggiungendo questi target grazie allo sviluppo di piani realistici è possibile cambiare davvero il modo in cui si opera, anche se il sistema non garantisce il supporto necessario. Per quanto difficile, è un ripensamento cui devono costringersi tutte le aziende, altrimenti non solo non sopravviveranno ma collasserà il modello economico attuale nel suo complesso.
Pensa che la crisi energetica e geopolitica che stiamo vivendo possa rallentare il processo di transizione?
Prima della pandemia e della guerra ci sono state altre crisi. Per far fronte a questa situazione, è necessario creare un sistema sostenibile, con un’economia composta da aziende orientate allo scopo. L’innovazione, la democrazia e lo spirito dell’economia di mercato possono essere preservati solo in questo modo. È l’unica via d’uscita, quindi, per quanto difficile, bisogna agire, anche se il mercato è particolarmente ostile in questo momento.
La finanza sostenibile è un potente fattore di sostegno alla transizione. Ritiene che gli investimenti attuali stiano andando nella giusta direzione?
Credo che gli investimenti mirati per attuare la transizione verso un sistema economico sostenibile, e quindi efficiente, siano ormai numerosi e in continuo aumento. Tuttavia, c’è ancora un’ampia fetta del mondo della finanza che continua a sostenere economicamente settori nocivi sia per la società che per l’ambiente, come ad esempio il settore legato ai combustibili fossili o quelli che non rispettano i diritti umani. La maggior parte delle decisioni di investimento non sono efficienti o efficaci in termini economici, perché non valutano i costi reali di questi investimenti.
Le buone intenzioni non possono arginare gli effetti dei finanziamenti indirizzati a queste attività dannose per tutti noi. C’è ancora molto da fare ed è necessario mobilitare tutte le risorse adesso. È necessario che la finanza, i governi e i cittadini, che al momento si sentono “intrappolati” decidano di andare comunque avanti, magari con l’aiuto di leader coraggiosi e visionari che illuminino la strada. In questo senso è molto importante il ruolo di enti come SACE che, come Export Credit Agency, è in grado di muovere e focalizzare gli investimenti verso l’interesse della società. È questo il mandato più importante che l’industria finanziaria deve portare a compimento.
Questo è ancora più vero nel contesto italiano in cui le PMI la fanno da padrone…
Certamente. È fondamentale che tutte le imprese, anche quelle che non sono adatte per Dna a sopravvivere in futuro (ad esempio quelle legate al business dell’energia convenzionale), si adoperino per cambiare i propri processi produttivi e la propria cultura aziendale, per raggiungere un sistema più sostenibile. Se non lo faranno, non avranno prospettive future.
L’istruzione e le università in particolare svolgono un ruolo fondamentale nel favorire la transizione verso un futuro sostenibile. Pensa che queste istituzioni stiano facendo abbastanza in questo momento?
Tutte le riflessioni fatte relative alle aziende possono essere applicate alle università. Anche in questo caso, se viene sostenuto il “business as usual”, si supporterà un sistema insostenibile. Come per le imprese, vi sono casi virtuosi di persone e dipartimenti che si impegnano per fare cose straordinarie, ma in generale mancano azioni sistemiche. Ad esempio, è regolamentare per le Università accettare i finanziamenti per la ricerca, senza chiedersi da dove provengano, o sostenere delle aziende senza accertarsi che si adoperino per raggiungere la transizione. Nella mia esperienza personale, riconosco di essere fortunata lavorando in un’università orientata allo scopo come il Cambridge Institute for Sustainability Leadership, il cui obiettivo finale è quello di formare i futuri leader del business sostenibile.
Si è conclusa da poco la COP27 a Sharm-el-Sheik, in Egitto. Ritiene che i risultati siano incoraggianti?
Credo che sia stato fatto qualche piccolo progresso sul cosiddetto loss and damage, ma solo quello che potenzialmente si poteva fare. Anche sul piano dei finanziamenti promessi ai Paesi in via di sviluppo, la COP27 ha fornito la base, ma bisogna ora procedere velocemente per garantire i soldi promessi.
Anche sul fronte della transizione è stato fatto qualche passo in avanti, in particolare in Paesi come l’Indonesia e il Sudafrica, per sostenerli finanziariamente verso un sistema basato su fonti energetiche più sostenibili.
Sulle grandi questioni, però, non c’è stato nessun movimento, soprattutto rispetto alla COP26 di Glasgow. Ad esempio, alla COP di quest’anno si è parlato di riduzione ed eventuale eliminazione del carbone, ma non di tutti i combustibili fossili. Trent’anni fa una discussione di questo tipo poteva essere in qualche modo giustificata, ora invece è profondamente preoccupante e riflette la mancanza di una piena comprensione della crisi.
Viene da chiedersi quante altre COP saranno necessarie perché il sistema venga cambiato. Il problema è che non c’è più tempo per aspettare, è necessario andare avanti trascinando ognuno con sé tutti i propri stakeholder.