Climate Change

COP27: come si è conclusa e con quali risultati

Prevale la delusione al termine della COP27 di Sharm el Sheik. I Paesi che hanno partecipato al più importante incontro dei leader mondiali per trovare soluzioni per combattere il riscaldamento climatico non sono riusciti a trovare un accordo sulla riduzione delle emissioni e neppure sulla graduale uscita da tutte le fonti fossili. Unica nota positiva, raggiunta dopo una strenua trattativa, è l’istituzione di un fondo, Loss and Damage, destinato ai Paesi più poveri che hanno subito gli effetti devastanti del cambiamento climatico. Tuttavia, per la decisione di tutti i dettagli tecnici di tale fondo, a partire da chi lo finanzierà a chi saranno destinate le risorse, si dovrà attendere agli esiti delle trattative che saranno condotte nel corso del 2023.

“Questa COP ha fatto un passo avanti verso la giustizia. Accolgo con favore la decisione di istituire un fondo per le perdite e i danni e di renderlo operativo nel prossimo periodo. Chiaramente”, ha commentato Antonio Guterres, Segretario generale Onu, “questo non sarà sufficiente, ma è un segnale politico assolutamente necessario”.

L’insoddisfazione traspare dalle parole di Frans Timmermans Vicepresidente della Commissione europea e capo delegazione Ue alla COP. “Sulle riduzioni delle emissioni abbiamo perso un’occasione e molto tempo, rispetto alla COP26. La soluzione non è finanziare un fondo per rimediare ai danni, è investire le nostre risorse per ridurre drasticamente il rilascio di gas serra nell’atmosfera”, ha affermato il politico olandese che ha espresso preoccupazione perché è questo il decennio in cui si decidono le sorti del Pianeta.

Il mancato accordo sui combustibili fossili

Se è vero che nel documento finale approvato alla COP di Sharm el Sheik si sottolinea che per raggiungere l’obiettivo, ribadito nuovamente, di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi dai livelli preindustriali accordato alla COP26 di Glasgow è necessario ridurre le emissioni (non solo quelle di CO2) del 43% entro il 2030 rispetto al 2019, manca tuttavia un accordo che imponga l’eliminazione graduale del ricorso ai combustibili fossili. E le attuali proiezioni mostrano che gli impegni dei Paesi non sono sufficienti, anche perché molti stati non hanno ancora definito una road map di decarbonizzazione. Nel documento, infatti, si evidenzia solo la necessità della transizione ad un sistema basato su fonti rinnovabili e l’importanza di ridurre (e non eliminare) l’utilizzo dei combustibili fossili. Chi si attendeva un passo avanti rispetto alle decisioni della COP26 soprattutto per quanto riguarda piani di attuazione concreti degli obiettivi, è rimasto insoddisfatto.

Probabilmente, la presenza dei Paesi del Golfo alla COP27, la cui forza economica si basa su sistemi produttivi legati ai combustibili fossili, e della Russia ha giocato un ruolo nel frenare la spinta verso un accordo che bandisse le emissioni e il ricorso ai combustibili. 

Un altro fattore che ha avuto senz’altro un certo peso sulla mancanza di un accordo sui combustibili fossili, è stata la crisi energetica scatenata dall’invasione Russa dell’Ucraina, che, oltre ad aver costretto molti Paesi (soprattutto europei) a cercare fonti energetiche alternative in poco tempo, ha spinto i prezzi delle materie prime alle stelle provocando un’inflazione senza precedenti negli ultimi decenni. Con la crisi, diversi Paesi hanno dovuto prendere decisioni di breve periodo in senso opposto rispetto alla transizione ad un sistema basato su fonti energetiche pulite, come ad esempio il ritorno alle centrali a carbone. 

Comunque, nonostante la limitata ambizione climatica dei Paesi che vi hanno partecipato e la scarsità di soluzioni concrete, a sostegno dell’importanza che la COP egiziana ha riservato al tema della decarbonizzazione, i Paesi che non hanno ancora aggiornato gli impegni di decarbonizzazione (Ndc, Nationally determined contributions) sono stati sollecitati a farlo entro il 2023. È, infatti, evidente che l’asticella degli 1,5 °C è terribilmente vicina, dato che, come emerso dall’ultimo rapporto IPCC, nel 2021 l’incremento della temperatura media mondiale rispetto al 1850 è stato di 1,21 °C. 

Il fondo Loss and Damage

Come detto, la nota positiva della COP di quest’anno è l’approvazione di un fondo Loss and Damage, raggiunto comunque solo nelle ultime ore dell’incontro, giusto in tempo per evitare che ne venisse dichiarato il totale fallimento. Un’intesa festeggiata da molte Nazioni di economie più arretrate che non hanno contribuito in passato alle emissioni che hanno causato l’emergenza climatica ma che ne pagano spesso, per ragioni geografiche e di mancanza di infrastrutture, le conseguenze più di quelle che hanno beneficiato dello sviluppo industriale ed economico. Erano circa 30 anni che non si trovava un punto di convergenza. Tuttavia, nonostante la rilevanza di questo accordo, non sono ancora stati stabiliti dettagli importanti, come l’ammontare e, soprattutto, chi pagherà e chi lo riceverà e quindi resta un’alea di incertezza.

Il passaggio che ha permesso di superare l’impasse che ha frenato finora questo strumento è stato quello di non considerare come beneficiari tutti i Paesi in via di sviluppo, cosa che avrebbe creato delle incongruenze, ma solo quelli più vulnerabili. Questo ha permesso di non includere per esempio i Paesi petroliferi del Golfo, la Cina e la Russia tra i possibili beneficiari degli aiuti, ma si vedrà se saranno inclusi tra quelli chiamati a finanziare il progetto, visto che le loro economie sono tra quelle a maggiore rilevanza sul fronte delle emissioni. 

Tornando al bilancio complessivo della COP27, un altro dato molto positivo è stato il fatto che hanno partecipato i Paesi africani che fino ad oggi avevano rivestito un ruolo da emarginati nei negoziati internazionali sul clima. 

Il fondo di adattamento da 100 miliardi ancora fermo

Non è un buon auspicio per il neo costituito Fondo Loss and Damage il fatto che i 100 miliardi di dollari di finanziamenti per investimenti in misure di adattamento climatico promessi dai paesi industrializzati ai paesi in via di sviluppo non sia ancora stato erogato.

Lo strumento della COP è ancora adatto?

Lo scarso risultati della CP27 sucita il dubbio se quello di queste grandi riunioni corali sia ancora lo strumento adatto per risolvere il problema della crisi climatica. Come scrive il Financial Times, quest’anno è emerso ancora più chiaramente rispetto alle edizioni precedenti che “gli enormi incontri annuali di due settimane sponsorizzati dalle Nazioni Unite hanno bisogno di un serio rilancio“.

Ora servono piani di azione e impegni concreti. Il formato delle COP risale a 30 anni fa, quando si tenne il primo incontro a Rio de Janeiro nel 1992. Le prima COP erano molto più piccole e si concentravano sui negoziati governativi per garantire accordi globali sul clima e a margine di quei negoziati gli attivisti tenevano eventi collaterali per far valere le proprie opinioni, sottolinea il Financial Times.

Dall’Accordo di Parigi, però, c’è stata un’inversione di tendenza: da allora banche, imprese, e industrie sono state incoraggiate a unirsi allo sforzo di ridurre le emissioni per mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C, possibilmente entro gli 1,5°C. Così si è innescato un sistema di tavole rotonde dove sono state fatte diverse promesse in tal senso da diversi governi.

Tuttavia, quest’anno, un team internazionale di scienziati ha riferito che nel 2022 le emissioni si sono mantenute a livelli record tali che, se persistono, c’è ora il 50% di possibilità che l’aumento della temperatura superi 1,5°C in nove anni.

Il divario tra promesse e realtà sta stimolando una serie di idee per portare più rigore scientifico e responsabilità negli impegni della COP.