Società benefit Assobenefit

Responsabilità sociale

Del Barba (Assobenefit): non solo profitto, le aziende sono molto di più e le Società Benefit lo sanno

Sostenibilità e redditività sono concetti strettamente connessi, che possono alimentarsi a vicenda. E questo è particolarmente vero per le Società Benefit (SB), cioè quelle società che, decidendo di acquisire tale qualifica, scelgono di perseguire un duplice scopo: oltre a generare profitto, quello di creare un beneficio comune, ambientale e/o sociale.

Introdotte quasi dieci anni fa, le società che integrano la responsabilità sociale d’impresa nel loro modello di business, adottando pratiche sostenibili e trasparenti, promettono una prospettiva più ampia della ricerca dell’utile per gli azionisti, ma come corollario, risultano anche più redditizie e con una marcia in più rispetto a quelle tradizionali. Un modello che incontra sempre più successo anche per chi ragiona secondo le tradizionali metriche aziendali legate al profitto, tant’è che in Italia le imprese che hanno assunto lo stato di SB sono in crescita e oggi hanno superato quota 4.000. “Il profitto come unica ragione di esistere è un paradigma in cui oggi molte imprese non si riconoscono più, anche se il diritto d’impresa è ancora imperniato su questo concetto” afferma, intervistato da ESGnews, Mauro Del Barba, co-fondatore e Presidente di Assobenefit, associazione rappresentativa delle società benefit (SB). Attivo in progetti di sostenibilità da oltre quindici anni, Del Barba, è uno dei “padri” della legge del 2015 che contiene i principi costitutivi delle SB e, come senatore, è stato il primo firmatario del DDL istituivo delle Società Benefit in Italia e del DDL per l’introduzione dello Sviluppo Sostenibile nella Costituzione Italiana, ribadito anche il primo giorno della XVIII legislatura alla Camera dei Deputati dove tuttora si occupa di sostenibilità. Tra le motivazioni che animano Del Barba e l’attività di Assobenefit c’è “rendere l’Italia il Paese in cui l’impresa sia indiscutibilmente vista come lo strumento per migliorare il mondo”.

L’Italia è stato uno dei primi Paesi a introdurre lo status di Società Benefit nel 2016. Cosa si intende per Società Benefit?

Le società benefit sono imprese organizzate come società di capitale o cooperativa che scelgono di assumere una qualifica che supera i limiti di quella definita dal codice civile, ossia legata all’obiettivo di realizzazione del profitto a vantaggio esclusivamente degli azionisti, ma si impegnano anche al raggiungimento di un altro scopo, definito dalla legge “di beneficio comune”.  Significa dunque dichiarare formalmente che l’azienda ha, nel suo costituirsi, un duplice scopo: oltre al profitto, quello di generare beneficio sociale e ambientale per tutti gli stakeholder e di voler operare bilanciando i due obiettivi senza che questo danneggi i risultati economici, ma anzi li avvantaggi.

Cosa spinge un’azienda a diventare Società Benefit?

La spinta in questa direzione ha a che vedere con le stesse motivazioni che portano ad occuparsi di sostenibilità. Di fondo l’obiettivo del legislatore in questa materia è quello di modificare l’identità d’impresa rendendola un soggetto che riconosce il suo senso di esistenza nell’utilità verso la società e verso i temi “core” di interesse della comunità a cui fa riferimento in ambito ambientale, sociale e di governance. La ragione di esistere di un’azienda come unicamente finalizzata alla creazione di profitto è un paradigma in cui oggi molte imprese non si riconoscono più, anche se il diritto d’impresa è ancora imperniato su questo concetto. E sia il legislatore, sia i mercati, sia la finanza, sia gli imprenditori stanno cercando di cambiare approccio e visione con modalità a volte convergenti e sicuramente interdipendenti.

Quali parametri deve soddisfare una Società Benefit per dimostrare di tenere fede al proprio statuto? Cosa deve fare in pratica?

La principale innovazione per le imprese che decidono di costituirsi o diventare Benefit, come abbiamo detto, è quella di avere un duplice scopo e, quindi, al contempo un distinto dovere di rendicontazione. Pertanto, oltre al bilancio tradizionale con la relazione annuale le società benefit devono redigere anche una valutazione d’impatto. È la logica conseguenza di questo tipo di impostazione. E proprio come la relazione annuale anche la relazione d’impatto può essere valutata da terzi e affinata su misurazioni sempre più analitiche, precise e standardizzate.

Chiaramente ora anche le società benefit dovranno recepire i contenuti della CSRD, la direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità dell’UE, redatta però dal legislatore europeo per tutte le imprese e non pensando in particolare a quelle benefit. Questo significa che le SB, che già da dieci anni si dedicano e producono questo tipo di informativa, sono chiamate a ri-leggere le indicazioni della nuova normativa come un normale affinamento di quella che è la propria relazione d’impatto. D’altro canto, la CSRD chiede alle aziende di effettuare un esercizio di trasparenza su determinate tematiche che fino ad oggi sono state invisibili per alcuni imprenditori, ma, a rigor di logica, non per quelli che hanno accolto l’impostazione e la visione delle società benefit.

Allargare lo scopo sociale dello Statuto aziendale anche a generare un impatto positivo sulle persone e sull’ambiente oltre che al profitto implica responsabilità aggiuntive per il board?

La legge stabilisce che gli amministratori sono responsabili per entrambi gli scopi sociali, quindi anche per quello di beneficio comune. Nel momento in cui quindi, una società diventa società benefit, il board ha l’obbligo di perseguire entrambi gli scopi sociali. Al contempo però occorre sottolineare che lo status di società benefit non implica obblighi di performance specifici. Non è una certificazione con determinati standard da raggiungere. E come lato profitto per essere definita tale un’impresa non ha una soglia minima di valore economico generato in cui rientrare, allo stesso modo anche per quanto riguarda l’aspetto del beneficio comune non vi è alcuna ingerenza da parte del legislatore nel voler definire livelli minimi o standard nelle performance (se non il giudizio del mercato).

Dal vostro osservatorio pensate sia frequente che un’impresa si qualifichi come Società Benefit ma poi non persegua quanto dichiarato nello Statuto?

Molte aziende italiane, per lo più piccole e medie, hanno storicamente un’inclinazione anche verso i temi sociali, quindi diventare Società Benefit è una naturale conseguenza che implica l’adozione di un approccio in realtà già intrinseco all’impresa stessa e che difficilmente viene meno o vuole essere ingannevole.

Nel caso invece di grandi aziende, c’è bisogno sicuramente di tempo per assimilare tale nuova visione, ma il fatto che si arrivi a scegliere di assumere questa qualifica è già segno di un certo tipo di consapevolezza. Poi il garante per la concorrenza e il mercato ha il compito di vigilare per colpire chi dovesse usare la qualifica di SB in maniera ingannevole: un evento però che difficilmente si rende necessario. Lo status di Società Benefit comporta doveri più impegnativi rispetto alle società tradizionali: non conviene caricarsene senza reale commitment.

In un momento in cui la sostenibilità viene messa in discussione su vari fronti, come vede l’interesse delle aziende italiane verso l’adozione di modelli produttivi che limitino l’impatto sull’ambiente e favoriscano le persone?

Occorre ammettere che le aziende italiane sono poco preparate alla rivoluzione ESG che deriverà dal recepimento delle direttive europee CSRD e CSDDD. Al contrario, le SB sono già da tempo impegnate su questi temi e quindi si trovano avvantaggiate rispetto al nuovo approccio normativo. Essere Società Benefit significa inglobare una nuova logica di business e una visione più lungimirante del futuro.

Un futuro che non può ignorare gli impatti ambientali e sociali. Un impegno confermato dalla ricerca recentemente realizzata da Assobenefit insieme a NATIVA, Research Department di Intesa Sanpaolo, InfoCamere, Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali dell’Università di Padova, Camera di commercio di Brindisi-Taranto, che ha mostrato come il 32,5% delle finalità di beneficio comune delle SB italiane è incentrato sull’impatto verso la comunità locale e il territorio. Inoltre, più della metà delle finalità (51,9%) si focalizza su impegni nell’area sociale, seguita da ambiente e governance. Infine, 8 aziende su 10 dimostrano consapevolezza sui temi materiali che influenzano maggiormente le performance di sostenibilità nel proprio settore.

Un’ultima considerazione: l’esercizio di trasparenza derivante dalle nuove normative potrebbe rivelarsi molto oneroso se lo si considererà solo in termini di compliance e non parte integrante del processo di costruzione del valore di un’impresa. La comunicazione dei dati relativi alla sostenibilità e il loro confronto, alla fine, è un tema di competitività tra aziende.

E infatti, la ricerca nazionale sulle Società Benefit 2024, a cui avete contribuito, dimostra come le aziende che implementano pratiche di sostenibilità abbiano una redditività maggiore di quelle meno virtuose, sfatando molti timori delle imprese. Ci vuole raccontare i risultati del report?

Non si tratta di risultati sorprendenti, perché la letteratura ha sempre evidenziato l’esistenza di una relazione positiva tra performance ESG e performance finanziaria. Questo perché quelli che sono visti – da alcuni – come “costi” per l’integrazione di buone pratiche di sostenibilità si rivelano essere investimenti che determinano maggiore redditività nel lungo periodo grazie, per esempio, all’efficientamento nell’uso delle risorse, all’incremento della produttività, alla crescita dei ricavi data dall’ampliamento del bacino di clienti disposti ad acquistare il prodotto e, sempre più, anche alla riduzione del costo del capitale e del debito.

In particolare, la prima ricerca nazionale sulle Società Benefit 2024 ha fatto emergere che tra il 2019 e il 2022 la crescita del fatturato delle SB è stata più che doppia rispetto alle non-benefit: +37% vs +18% in termini mediani e che la redditività misurata dall’EBITDA margin è stata pari al 9%, superiore rispetto all’8,3% delle non-benefit. Inoltre, c’è stata una maggiore produttività per addetto nel 2022, con un valore aggiunto per addetto pari a 62.000 euro rispetto a 57.000 euro, oltre a più investimenti per il futuro e attenzione alla creazione di valore condiviso.

Non è un caso, quindi, forse, che a fine 2023 il numero di Società Benefit sia salito a 3.619, un aumento del 37,8% tra 2022 e 2023, con più di 188mila persone occupate.