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Moda sostenibile: cos’è, vantaggi ed esempi

“La moda passa, lo stile resta”. È una delle più celebri affermazioni della stilista francese Coco Chanel. Mentre lei disegnò una giacca iconica che le donne in carriera potessero indossare 24 ore su 24, in ogni occasione, oggi la disponibilità di capi a basso prezzo spinge molti consumatori, in tutto il mondo, a saturare i propri armadi di outfit da sfoggiare anche una volta soltanto. Tra il 2000 e il 2015, secondo le stime del Parlamento europeo, la produzione di abbigliamento è raddoppiata, mentre l’utilizzo è diminuito del 36 per cento: è il fenomeno della fast fashion, insostenibile dal punto di vista ambientale e sociale.

Cos’è la moda sostenibile

Alla fast fashion si oppone la moda lenta, che “non passa”, la moda sostenibile: una nuova modalità di produrre abbigliamento etico che, come definito dall’ONG Oxfam e dall’ONU, abbia un impatto ambientale e sociale ridotto. È una strategia di business in grado di contribuire al dodicesimo obiettivo dell’Agenda 2030, ovvero il passaggio a modelli di produzione e consumo responsabili, grazie a interventi capaci di efficientare l’intera catena del valore

Il vento del cambiamento ha cominciato a soffiare soprattutto dopo il crollo del Rana Plaza, edificio che ospitava diverse fabbriche di abbigliamento nella capitale del Bangladesh, il 24 aprile 2013. L’incidente provocò 1.138 vittime, operai sottopagati che erano stati costretti a recarsi al lavoro nonostante le crepe avvistate sui muri dell’edificio. La tragedia scosse fortemente l’opinione pubblica e portò alla nascita di Fashion Revolution, un movimento globale di attivisti e attiviste che credono in una diversa industria della moda, capace di rispettare i diritti umani e l’ambiente in tutte le fasi del ciclo produttivo. La Fashion Revolution Week si contrappone ogni anno alle settimane della moda organizzate nelle città di Milano, Parigi, New York e Londra.

I tre vantaggi della moda sostenibile

Minor impatto ambientale

Si stima che l’industria della moda sia responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio e che la produzione tessile sia responsabile di circa il 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile (dati Parlamento UE). Nel 2020, sono serviti in media nove metri cubi di acqua, quattrocento metri quadrati di suolo e quasi altrettanti chilogrammi di materie prime per fornire abiti e scarpe agli abitanti dell’Unione europea. Ogni anno, nell’UE, vengono generati 12,6 milioni di tonnellate di rifiuti tessili. È per questo che, nel marzo del 2022, la Commissione ha presentato una nuova strategia per rendere i tessuti più durevoli, riparabili, riutilizzabili e riciclabili

Produrre di meno e riciclare di più, effettuando il passaggio dalla fast alla slow fashion, significa ridurre il consumo di risorse, l’inquinamento e i gas serra. Scegliere tessuti naturali e certificati, anziché le fibre sintetiche, consente di limitare la quantità di microplastiche rilasciata ogni anno negli oceani. E ricordiamoci che alleggerire il nostro impatto ambientale non significa necessariamente alleggerire anche il nostro portafoglio. Calcolando il cost per wear dei nostri indumenti, dividendo il loro prezzo iniziale per il numero di utilizzi, potremmo renderci conto di aver “pagato” di più una T-shirt da dieci euro indossata due volte di un jeans da cinquanta euro indossatone venti.

Migliori condizioni dei lavoratori

L’industria della fast fashion è fra i settori che contribuiscono alla cosiddetta “schiavitù moderna”. Gli indumenti, stando al Global Slavery Index, sono fra i prodotti importati dai Pesi del G20 che presentano il più elevato rischio di essere frutto del lavoro forzato. Del resto, produrre un’elevata mole di capi economici richiede molte ore di lavoro e il contenimento dei costi di produzione. Come riporta l’organizzazione Walk Free, impegnata proprio nel contrasto di questi fenomeni, ci sono grandi marchi con sede nei Paesi ricchi che aumentano i loro profitti producendo in Paesi più poveri e costringendo i propri dipendenti a fare i conti con salari inadeguati, forme di retribuzione a cottimostraordinari forzati e non retribuiti, scarsi livelli di sicurezza e mancanza di benefit come il congedo di maternità. Investire nella moda sostenibile significa investire anche nel rispetto dei diritti dei lavoratori: esistono apposite certificazioni che possono aiutare i consumatori a compiere scelte più consapevoli.

Spinta all’innovazione

La ricerca di soluzioni meno impattanti ha spinto tanti brand, fra cui molteplici startup, a innovarsi e trovare materiali alternativi con cui lavorare. Un esempio è quello dei tessuti vegani che – se vengono realizzati a partire da fibre naturali e, possibilmente, di scarto – rappresentano delle valide alternative alla pelle di origine animale e contribuiscono a promuovere l’economia circolare. Ci sono poi le tecnologie digitali che possono dare un grosso contributo alla transizione sostenibile dell’industria tessile. Insomma, quello fra moda e sostenibilità è un connubio che ha il potere di rivoluzionare il nostro modo di vivere su questo Pianeta, trasformando il nostro stile in uno strumento per trasmettere i nostri valori e dando al Made in Italy nuovo impulso creativo.

Esempi di brand sostenibili

Come raccontato in questo articolo sui brand sostenibili, tra i marchi che stanno portando avanti iniziative specifiche per ridurre il proprio impatto ambientale e migliorare quello sociale vi sono:

  • Patagonia
  • Pangaia
  • 4Ocean
  • Timberland
  • Stella McCartney