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Moda sostenibile

Brand sostenibili: quali sono i cinque marchi più green

Per parlare di brand sostenibili occorre ricordare un evento che ha rappresentato una svolta nel modo di considerare l’impatto della moda su ambiente e persone. Era il 23 aprile del 2013 quando a Savar, un distretto dell’area di Dacca in Bangladesh, cadde il Rana Plaza, una palazzina commerciale di otto piani dove erano collocate fabbriche tessili di noti marchi internazionali, come Mango, Primark, H&M, Zara, Berska, Oysho, Stradivarius, Pull and Bear e molti altri. A seguito di questa tragedia, in cui persero la vita oltre mille persone e che fece luce sulle condizioni economiche e lavorative cui erano sottoposti i dipendenti del settore della cosiddetta fast fashion, il dibattito internazionale ha iniziato a puntare il dito sull’industria della “moda veloce” e sul modello di business da questa proposto.

La fast fashion, infatti, prevede la vendita di indumenti a prezzi stracciati e per lo più di bassa qualità, con un impatto molto alto sull’ambiente e i lavoratori del settore. Nata a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, si è espansa nei primi anni 2000, e in breve tempo ha fidelizzato milioni di consumatori in tutto il mondo, spinti dal desiderio di poter essere alla moda risparmiando, potendo acquistare vestiti a basso costo.

In realtà, però, il consumo medio dai primi anni Novanta a oggi è aumentato di oltre il 500%. Ciò significa che se da un lato si paga meno per il singolo capo, dall’altra se ne acquistano di più, e questo per due motivi principali: il primo è che il valore e la qualità degli indumenti è inferiore rispetto al passato, un aspetto che fa sì che non possano essere utilizzati a lungo; il secondo è che l’industria propone circa 52 collezioni l’anno (e non più due: primavera/estate e autunno/inverno) inducendo il desiderio di abbigliamento sempre nuovo.

Questo modello però non è sostenibile. Ha infatti notevoli impatti ambientali, legati alle emissioni di gas serra, all’uso di suolo e al consumo di acqua, oltre che all’inquinamento delle falde acquifere e degli oceani (dal momento che la maggior parte dei tessuti utilizzati sono sintetici e rilasciano microplastiche durante i lavaggi). Inoltre, gli stabilimenti produttivi si trovano per lo più in Paesi in via di sviluppo dove non sempre vigono rigorose leggi in materia di diritto del lavoro.

La problematica si sta facendo così risonante da spingere anche l’Unione Europea, nella cornice del piano d’azione per l’economia circolare, a correre ai ripari con una strategia che si prefigge l’obiettivo di contrastare gli aspetti critici della fast fashion, la distruzione delle migliaia di capi invenduti, che nella maggior parte dei casi viene bruciata, e di garantire che la produzione avvenga nel pieno rispetto dei diritti sociali.

Cosa rende i brand sostenibili?

Il modo più diretto per comprendere se un capo d’abbigliamento, e quindi il brand che lo ha prodotto, è sostenibile è quello di porsi una serie di domande. A partire da quella promossa dall’omonima campagna di sensibilizzazione di Fashion Revolution, il più grande movimento di attivismo per la moda, “Who made my clothes?”, e quindi “chi ha prodotto i vestiti?”, a cui nella verifica di sostenibilità di un marchio se ne aggiungono altre, per esempio: dove sono stati prodotti gli indumenti venduti? Quanto sono pagati e in quali condizioni lavorano i dipendenti? Di che materiale è fatto il tessuto del capo acquistato? In che modo sono prodotte o coltivate le materie prime utilizzate? Quanta acqua serve per produrre il capo? I prodotti chimici usati per colorare i tessuti quanto inquinano le falde acquifere?

Rispondere a queste domande non è sempre facile perché non tutti i brand rendono noto questo tipo di informazioni, tanto è vero che proprio Fashion Revolution ha promosso e stila ogni anno il Fashion Transparency Index, un’analisi annuale di 250 tra i maggiori marchi e rivenditori di moda del mondo, classificati in base al loro livello di divulgazione pubblica delle politiche, delle pratiche e degli impatti sui diritti umani e sull’ambiente riguardanti le operazioni e le catene di approvvigionamento.

Quali sono i brand più sostenibili?

Un numero sempre maggiore di brand sta portando avanti iniziative per ridurre l’impatto ambientale e sociale delle proprie produzioni e promuovere un cambiamento positivo all’interno dell’industria della moda. Tra questi, sono esempi Patagonia, Pangaia, 4Ocean, Timberland e Stella McCartney.

Patagonia

Ai vertici dei brand sostenibili, Patagonia è stata la prima azienda nel 1993 a produrre indumenti in pile utilizzando bottiglie di plastica riciclate (poliestere riciclato), riducendo la dipendenza dal petrolio come fonte di materia prima. Il marchio inoltre utilizza nylon riciclato, derivante da fibre di scarti post-industriali, filati e scarti di tessiture post-consumo, per produrre alcune delle sue giacche e alcuni indumenti tecnici.

Da alcuni anni, inoltre, il brand, ormai ambassador della sostenibilità in tutto il mondo, ha introdotto la “Garanzia Corazzata” che garantisce ai consumatori di riparare a zero spese (tranne quelle di spedizione locale per inviare il pacco al centro di raccolta regionale) gli indumenti che si rompono o che riscontrano problemi di qualità. Nel suo hub, Worn Wear, Patagonia prova a mantenere in vita i capi il più a lungo possibile, riparandoli e riciclandoli.

Pangaia

Il nome del brand già racchiude la visione dell’azienda, nonché le ragioni per cui viene considerata tra i brand più sostenibili. Pan, dal greco antico che significa “tutto”, vuole trasmettere l’idea di inclusività, e Gaia, la dea che impersonificava la Terra nella mitologia greca e ha dato il nome a diverse teorie sul nostro Pianeta a partire dagli anni Settanta, vuole sottolineare l’importanza di porre il benessere del Pianeta al centro attraverso un’attività positiva per la Terra che restituisce più di quanto prende.

Oltre a tessuti, fibre animali e materiali riciclati, Pangaia utilizza materiali tessili innovativi e fibre naturali “biobased” (FLWRDWN™, C-FIBER™, PLNTFIBER™ & FRUTFIBER™) a ridotto impatto ambientale, ideati dal gruppo di scienziati del marchio e prodotti riutilizzando gli scarti alimentari, trasformando la fibra di foglie di banano, di ananas e di bambù, l’ortica dell’Himalaya, l’eucalipto e alghe marine.

Inoltre, per prevenire l’eccessivo lavaggio dei capi, tratta i prodotti con olio di menta piperita naturale e vegetale (PPRMINT™) al fine di neutralizzare e prevenire la crescita dei batteri che causano cattivi odori e rendendo possibile indossare gli indumenti trattati molte volte prima di doverli lavare.

Pangaia calcola l’impronta ambientale dell’azienda al fine di monitorare e ridurre il proprio impatto e proteggere la biodiversità. A tal fine ha creato due fondi, il Tomorrow Tree Fund, attraverso cui pianta, protegge e ripristina alberi ad ogni prodotto acquistato, e il Bee The Change Fund, attraverso il quale lavora per preservare e proteggere le specie di api vulnerabili in tutto il mondo.

4Ocean

4Ocean è una società di pubblica utilità e una B Corp certificata che si impegna per combattere l’inquinamento della plastica negli oceani. Vende prodotti di gioielleria, in particolare braccialetti, realizzati con materiali e plastica riciclati. Ogni prodotto 4Ocean acquistato finanzia la rimozione di un chilo di rifiuti dall’oceano, dai fiumi e dalle coste.

L’azienda organizza anche attività educative volte a sensibilizzare sull’inquinamento della plastica e a rendere le persone consapevoli delle alternative alla plastica monouso.

Timberland

Attraverso la campagna Plant the ChangeTimberland si è impegnata a piantare 50 milioni di alberi entro i prossimi cinque anni. L’azienda inoltre impiega pellami provenienti da allevamenti rigenerativi, gomma naturale certificata e tessuti riciclati.

In particolare, le suole delle scarpe GreenStride™ sono realizzate per il 75% con canna da zucchero proveniente da fonti rinnovabili e gomma naturale eco-responsabile, mentre la fodera impermeabile TimberDry™ è composta al 50% da bottiglie di plastica riciclate. Anche per l’isolamento termico Timberland utilizza fibre, materiali e plastica riciclati.

La pelle utilizzata per gli indumenti invece proviene da aziende che utilizzano pratiche agricole rigenerative. Questa tecnica lascia riposare il terreno in modo che possa assorbire il carbonio, trattenere l’acqua e ripristinare la biodiversità dove pascolano i bovini.

Stella McCartney 

Il brand inglese è sempre stato tra i più sostenibili, perché fin dagli esordi promotore delle alternative alla pelle, al cuoio e alle pellicce dalla sua nascita nel 2001. Nel tempo ha potenziato la propria visione sulla sostenibilità. Calcola l’environmental footprint dei propri prodotti lungo tutta la catena di approvvigionamento, dalla produzione al consumo finale. Utilizza cotone biologico, nylon e poliestere riciclato, e non impiega cashmere vergine; si impegna inoltre per migliorare il proprio impatto per quanto riguarda l’uso della seta.

Negli ultimi due anni, la casa di moda ha pubblicato il Manifesto McCartney dalla A alla Z, che definisce e guida la visione sostenibile del marchio e ha prodotto due t-shirt e due felpe a supporto della campagna di Greenpeace per fermare la deforestazione. Nel 2020 ha lanciato un denim elasticizzato biodegradabile, Coreva™, e Stellawear, una collezione di biancheria intima e costumi da bagno realizzata in nylon rigenerato Aquafil Econyl® ed elastan ROICA. L’anno scorso Stella McCartney ha inoltre presentato uno dei primi capi di abbigliamento al mondo realizzati con la pelle di funghi Mylo™️ di Bolt Thread e lanciato le Air Slide, scarpe realizzate con scarti industriali riciclati.

Sul fronte sociale, invece, nel 2019 ha lanciato una nuova serie di politiche e linee guida per i fornitori che delineano i requisiti e le aspettative in materia di sostenibilità sociale del brand, i cui standard si basano sulle convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO).