L’importanza di figure professionali esperte di ESG nelle aziende e nei CdA, l’evoluzione incessante della regolamentazione ESG, le banche e gli stress test climatici, l’andamento delle emissioni di green bond, ma anche la politica di stewardship e le votazioni “Say on Climate”. Sono queste le tendenze da tenere d’occhio nel 2023 per capire quali saranno le principali sfide in ambito ESG che, secondo il leader dei dati e rating USA MSCI MSCI, potranno influenzare l’attività di investimento e le opportunità o rischi per le aziende nel corso nei prossimi 12 mesi.
MSCI, nel report ESG and Climate Trends to Watch for 2023, analizza questi fattori tenendo in considerazione sia i processi di fondo che caratterizzano le sfide da affrontare in ambito di sostenibilità – come il rischio di cambiamento climatico e la strada verso il net zero, la crescente minaccia esistenziale della perdita di biodiversità, le disuguaglianze sociali, la regolamentazione e il dibattito e le controversie sul greenwashing – sia il contesto in cui gli attori del mercato operano, ovvero di guerra in Europa, inflazione, mercati energetici in subbuglio, incertezza politica e un flusso incessante di disastri indotti dal clima.
Indice
- 1 La crescita di “Say on Climate”
- 2 I cda attenti al clima contribuiranno a migliorare le traiettorie delle emissioni?
- 3 La standardizzazione delle regolamentazioni per i fondi ESG non è ancora sufficiente
- 4 La sfida per le banche, con i regolamenti sugli stress test climatici
- 5 I rating ESG possono colmare le lacune per i principali indicatori di impatto negativo (PAI)
- 6 La luna di miele per i green bond è finita?
- 7 Dilemma energetico: sicurezza o transizione verso l’energia pulita
- 8 L’energia nucleare un ritorno non senza ostacoli
- 9 Net zero: le aziende puntano in alto, ma le loro strategie sono concrete?
- 10 Investire nelle emissioni: Il carbonio come nuova asset class?
La crescita di “Say on Climate”
Secondo l’analisi di MSCI, nel 2022 il numero di investitori che ha votato contro le strategie aziendali in materia di clima tramite i proxy vote è stato superiore rispetto a quello del 2021. Una pratica, incoraggiata dal movimento Say on Climate che chiede agli aderenti di spingere i manager delle aziende a presentare piani aziendali di riduzione delle emissioni da fare votare alle assemblee, che sprona le imprese a migliorare i propri impegni e ridualtati in termoni di decarbonizzazione. Nel 2022 gli investitori hanno votato, in molti casi, contro i piani climatici quando la traiettoria delle emissioni dell’azienda era disallineata rispetto agli obiettivi di temperatura globale, come misurato dall’MSCI Implied Temperature Rise.
Il report ha identificato 53 società appartenenti all’MSCI ACWI Investable Market Index (IMI) che negli ultimi due anni hanno messo ai voti il loro piano climatico. Gli investitori hanno approvato le strategie proposte dalle aziende sul clima, per lo più con ampie maggioranze. Tuttavia, la percentuale media di voti contrari è passata dal 3,1% nel 2021 al 9,6% nel 2022, indicando un crescente disagio tra alcuni investitori. Nello specifico, l’analisi del numero limitato di votazioni del 2022 (43 società) suggerisce che molti investitori dissenzienti potrebbero essersi opposti a strategie aziendali sul clima che ritenevano non abbastanza ambiziose. Con altre votazioni sul clima previste per il 2023, bisognerà vedere se questa dinamica si manterrà o meno.
I cda attenti al clima contribuiranno a migliorare le traiettorie delle emissioni?
Gli investitori si dimostrano sempre più intenzionati a mettere alla prova i membri dei consigli di amministrazione sulle performance climatiche delle loro società, anche esaminando le informazioni sulla gestione del rischio climatico o i piani di riduzione delle emissioni in alcuni mercati. Nel 2023, bisognerà vedere se i board che mostrano maggiore attenzione al clima saranno efficaci nell’aiutare le società ad alta intensità di emissioni a superare questo esame.
Uno studio recente ha rilevato che le società quotate nel Regno Unito con migliori pratiche di governance tendevano a ottenere una maggiore riduzione delle emissioni di carbonio rispetto ai competitor del settore. Se ciò dovesse verificarsi in maniera più diffusa, i consigli di amministrazione che dedicano molto tempo alle questioni ambientali o di sostenibilità e che includono amministratori con esperienza in materia di clima potrebbero realmente contribuire a spingere le aziende ad affrontare il rischio di transizione climatica e a ridurre le emissioni.
Per esplorare questi aspetti, MSCI ha esaminato le pratiche dei consigli di amministrazione di un gruppo di “ritardatari” in materia di clima: 38 componenti dell’indice MSCI ACWI in settori ad alta intensità di emissioni che erano fortemente disallineati rispetto agli obiettivi di temperatura globale a novembre 2022, come misurato dall’MSCI Implied Temperature Rise. Tra queste solo sette società, quelle evidenziate in verde nella figura seguente, avevano un comitato per la sostenibilità all’interno del consiglio di amministrazione e almeno un amministratore con esperienza in materia di clima. Quindi, MSCI si propone di osservare le loro traiettorie future delle emissioni, per comprendere se i consigli di amministrazione incentrati sul clima possono aiutare le società ad allinearsi agli obiettivi di temperatura globale.
La standardizzazione delle regolamentazioni per i fondi ESG non è ancora sufficiente
Per gran parte dell’ultimo decennio, i fondi orientati all’ESG hanno operato con una guida normativa limitata. Ma la situazione sta rapidamente cambiando. L’interesse delle autorità di regolamentazione per la classificazione dei fondi e gli obblighi di comunicazione si stanno intensificando a livello globale. Sotto la spinta della Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR) dell’UE, che impone requisiti per una rendicontazione più trasparente dei fondi ESG, altre importanti autorità di regolamentazione del mercato stanno seguendo l’esempio.
Nel 2023, secondo MSCI, assisteremo a importanti cambiamenti nelle denominazioni e nelle etichette dei fondi ESG, in quanto i regimi di divulgazione in atto impongono ai gestori un obbligo di rendicontazione più severo.
Australia, Hong Kong e Singapore, ad esempio, hanno fornito indicazioni per standardizzare le informazioni sull’integrazione dei fattori ESG nel processo di selezione degli investimenti. Le autorità di regolamentazione dell’UE e del Canada si sono spinte oltre, cercando di classificare i fondi sostenibili, in quanto un’integrazione ESG più ampia richiede una maggiore divulgazione. Gli Stati Uniti hanno fatto qualche passo avanti con una proposta simile ma non paragonabile, un passo significativo per il più grande mercato di fondi al mondo (che rappresenta oltre il 60% degli investimenti globali in fondi).
Se queste proposte collettive entreranno in vigore, potrebbero essere sottoposti a sorveglianza 3,6 trilioni di dollari di investimenti sostenibili (l’8% del patrimonio globale dei fondi).
Per gli investitori, questo potrebbe significare decisioni più informate, ma potrebbe anche portare alla nascita di una moltitudine di standard regionali scollegati per la classificazione dei fondi ESG, una sfida per gli investitori alla ricerca di un obiettivo ESG comune tra le varie giurisdizioni.
Gli investitori, infatti, hanno bisogno di informazioni comparabili, coerenti e significative per prendere decisioni. Un’indagine condotta nel 2022 dalla Task Force on Climate-related Financial Disclosures (TCFD) ha individuato nella comunicazione coerente degli obiettivi climatici una delle principali aree di miglioramento per le aziende. Tuttavia, nonostante gli sforzi per creare standard di comunicazione comuni tra le varie giurisdizioni, persistono differenze. Il disallineamento normativo sugli obiettivi climatici potrebbe significare il permanere di lacune critiche nei dati, con conseguenti difficoltà nella valutazione e nel confronto degli impegni aziendali.
Nel 2023 vedremo come i quadri di riferimento per la divulgazione degli obiettivi climatici si muoveranno verso l’implementazione: con una maggiore convergenza e coerenza o con un’ulteriore frammentazione?
La sfida per le banche, con i regolamenti sugli stress test climatici
Un numero crescente di autorità in tutto il mondo sta richiedendo alle istituzioni finanziarie di condurre stress test sul rischio climatico e probabilmente ne seguiranno altri. Tuttavia, l’analisi di MSCI delle banche nelle varie giurisdizioni con requisiti esistenti o previsti per gli stress test climatici ha rilevato che, sebbene alcune banche fossero più preparate di altre, nessuna poteva dirsi completamente pronta (come si osserva nel grafico di seguito).
Comprendere l’esposizione del bilancio di una banca ai rischi legati al clima è diventato sempre più importante – e non solo per i 117 firmatari della Net Zero Banking Alliance, con un patrimonio complessivo di 70.000 miliardi di dollari, che si stanno impegnando per convertire a zero i loro portafogli di prestiti e investimenti. In almeno 18 giurisdizioni, le banche sono già o saranno presto sottoposte a stress test climatici regolamentari.
Recenti stress test climatici condotti dalla Banca Centrale Europea (BCE), dalla Banca d’Inghilterra, dall’Autorità Monetaria di Hong Kong e dalla Banca del Canada hanno rilevato che:
– Le capacità di modellazione del rischio climatico a livello settoriale e l’allocazione del reddito e delle esposizioni per settore/paese e per intensità di emissioni sono rimaste una sfida importante, con meno del 10% delle banche valutate dalla BCE che hanno utilizzato sufficienti informazioni lungimiranti e granulari sul rischio climatico nelle pratiche di gestione del rischio;
– Affrontare le lacune di dati – in particolare quelle relative alle emissioni dell’Ambito 3 e ai piani di transizione climatici di clienti e controparti – sarà fondamentale per comprendere il quadro completo dell’esposizione al rischio climatico;
– L’incertezza sui tempi di concretizzazione dei rischi climatici e la mancanza di dati storici ostacolano lo sviluppo e la validazione dei modelli di rischio climatico.
Con o senza obiettivi di azzeramento, le normative in arrivo impongono alle banche di essere in grado di quantificare l’esposizione dei loro bilanci ai rischi legati al clima in futuro. Sarà fondamentale porre rimedio alle carenze di dati e modelli relativi al clima evidenziate finora dagli stress test climatici.
I rating ESG possono colmare le lacune per i principali indicatori di impatto negativo (PAI)
Dall’anno prossimo, gli operatori dei mercati finanziari soggetti al regolamento UE sulla divulgazione della finanza sostenibile (SFDR) dovranno iniziare a segnalare i Principal Adverse Impact indicators (PAI) – gli impatti ambientali o sociali negativi – associati alle loro partecipazioni in portafoglio e, a partire dal 2024, anche le variazioni annuali. Quest’esigenza si scontra però con il fatto che le aziende non saranno tenute a segnalare i PAI fino al 2024.
Nel 2023, MSCI monitorerà come i gestori patrimoniali cercheranno di colmare il divario tra la scarsità di dati PAI e l’urgente necessità di monitorare e gestire la propria esposizione.
Considerati i problemi di dati per alcuni PAI e l’adozione diffusa dei rating ESG nei processi di investimento, secondo MSCI, è possibile che i gestori patrimoniali li utilizzino per evidenziare i PAI dei loro portafogli. Anche se questo non è lo scopo dei rating ESG, potrebbero rivelarsi una guida utile in attesa di informazioni aziendali più complete.
In un caso di studio in cui MSCI ha aumentato la media ponderata dell’MSCI ESG Rating di un ipotetico portafoglio del 20% attraverso l’ottimizzazione del portafoglio, è stato riscontrato che la maggior parte dei PAI medi ponderati è diminuita e la copertura dei dati è migliorata. Può darsi, dunque, che le aziende che hanno gestito meglio le questioni ESG tendano anche a gestire meglio, e a divulgare, una gamma più ampia di impatti esterni.
La luna di miele per i green bond è finita?
Nonostante le pressioni inflazionistiche, l’offerta di green bond si è ridotta di appena l’1% nella prima metà del 2022, rispetto alla seconda metà del 2021. Ma questo potrebbe essere solo il primo segnale di una tendenza futura. Nel 2023, quindi, MSCI si propone di verificare se i green bond riusciranno a mantenere un percorso di crescita credibile a fronte dell’aumento dei tassi di interesse, della riduzione dei premi di spread e delle crescenti preoccupazioni sul greenwashing.
Dal primo lancio importante dei green bond nel 2007, questi hanno seguito una rapida traiettoria ascendente, passando da un’emissione totale di 37 miliardi di dollari nel 2014 a 578 miliardi di dollari nel 2021. Questa crescita riflette un più ampio entusiasmo per le obbligazioni verdi, sociali e di sostenibilità (GSS), che nel 2020 hanno rappresentato l’1,7% del mercato obbligazionario globale da 100.000 miliardi di dollari.
Nonostante l’interesse per tutta la gamma delle variabili ESG, i green bond hanno continuato a mantenere il primato, rappresentando circa il 60% del valore totale delle emissioni di GSS ogni anno. Ma il periodo di “luna di miele” potrebbe iniziare a scemare, avverte MSCI, dato che gli spread di rendimento dei green bond sono rimasti più bassi (otto punti base in media) rispetto alle obbligazioni convenzionali.
In assenza di un quadro normativo standardizzato ampiamente adottato, gli emittenti hanno avuto una certa flessibilità nell’etichettatura delle loro obbligazioni. Tra gennaio 2021 e settembre 2022, delle oltre 600 obbligazioni valutate da MSCI, circa una su cinque non rispettava i criteri espliciti dei green bond (vedi grafico), e alcune arrivavano addirittura a finanziare la generazione o la trasmissione di combustibili fossili. Lo scetticismo degli investitori potrebbe essere mitigato dagli sviluppi che includono la proposta di standard per i green bond dell’UE, ma fino a quando questi tipi di standard non saranno in vigore, le società potrebbero dover lavorare di più contro la percezione di emettere obbligazioni “verdi” con pratiche potenzialmente discutibili e rendimenti ridotti.
Dilemma energetico: sicurezza o transizione verso l’energia pulita
Le sanzioni economiche imposte alla Russia in risposta all’invasione dell’Ucraina hanno portato alla ribalta il tema della sicurezza energetica nazionale, ossia della necessità di disporre di sufficienti riserve di combustibili fossili per la propria economia e popolazione. Nel 2023, MSCI osserverà come le continue perturbazioni dei mercati energetici influenzeranno la transizione globale verso l’energia pulita in diversi Paesi e cosa potrebbe significare per l’esposizione al rischio sovrano a lungo termine.
Con i governi europei che si affannano a trovare opzioni energetiche alternative per sostituire le forniture di idrocarburi russe, il passaggio a un’economia a zero emissioni di carbonio sembra essere diventato una preoccupazione secondaria, almeno per ora. Alcuni governi sono ricorsi all’importazione di carbone, il combustibile fossile a più alta intensità di carbonio, e hanno stipulato contratti di gas a lungo termine a scapito degli investimenti nelle energie rinnovabili. Tuttavia, diversi governi si sono anche impegnati ad accelerare l’espansione delle rinnovabili.
Questi cambiamenti politici potrebbero avere un impatto cruciale sul modo in cui i governi modificheranno i loro piani di transizione energetica. L’analisi di MSCI, illustrata in dettaglio nella figura seguente, ha mostrato che alcuni Paesi sembrano essere meglio posizionati di altri per gestire la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio. Ad esempio, la Danimarca e la Nuova Zelanda sono tra i Paesi con la maggiore sicurezza energetica e i più alti progressi verso la transizione energetica, perché hanno diversificato le loro forniture energetiche e investito nelle energie rinnovabili abbastanza presto da rimanere in linea con i loro obiettivi di emissioni nette a zero.
L’energia nucleare un ritorno non senza ostacoli
La crisi energetica globale e la maggiore richiesta di energia a basse emissioni di carbonio hanno fatto pendere di nuovo la bilancia a favore dell’energia nucleare. Nel 2023, MSCI osserverà se un’industria che ha vissuto la sua ultima ascesa negli anni ’90, sarà in grado di gestire i costi elevati, i lunghi tempi di realizzazione dei progetti e i vincoli operativi agli investimenti necessari per rinvigorire il settore.
Nel luglio 2022, l’UE ha votato per etichettare l’energia nucleare come attività sostenibile nell’ambito della tassonomia verde, con l’obiettivo di facilitare il flusso di capitali verso gli asset nucleari. Sebbene questa mossa sia stata criticata per l’aumento delle scorie radioattive, la Cina, la Corea del Sud e altri Paesi che stanno sviluppando tassonomie hanno adottato lo stesso approccio. Inoltre, in seguito all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, diversi Paesi, tra cui Germania, Corea del Sud, Giappone, Belgio, Francia, Paesi Bassi e Stati Uniti, hanno invertito i piani di abbandono del nucleare. Si sono mossi per riavviare i reattori inattivi, hanno offerto sussidi per estendere la durata di vita delle unità atomiche esistenti o hanno annunciato l’aggiunta di nuovi impianti.
Tuttavia, la rinascita del nucleare non è scontata: tra i potenziali ostacoli vi sono i lunghi tempi di costruzione degli impianti, i costi più elevati rispetto ad altre tecnologie (non solo l’eolico e il solare, ma anche l’energia idroelettrica, il carbone e il gas con cattura e stoccaggio del carbonio) e l’invecchiamento della forza lavoro (25% di età pari o superiore a 55 anni).
Net zero: le aziende puntano in alto, ma le loro strategie sono concrete?
La credibilità degli obiettivi climatici diventerà probabilmente la prossima frontiera per gli investitori istituzionali che mirano a decarbonizzare i portafogli di investimento e a ridurre le emissioni di gas a effetto serra (GHG) dell’economia reale, in conformità con le iniziative net-zero guidate dalle Nazioni Unite, come la Net-Zero Asset Owner Alliance.
MSCI ha osservato un numero crescente di società che fissano obiettivi climatici, compresi quelli di emissioni nette a zero. Tuttavia, rimangono dubbi sulla raggiungibilità di questi obiettivi.
Dei 9.238 componenti dell’MSCI ACWI Investable Market Index a ottobre 2022, il 36% (3.306) ha fissato obiettivi climatici. Di questi, 715 società hanno fissato obiettivi allineati all’Accordo di Parigi e approvati dalla Science-Based Targets initiative (SBTi) e 45 hanno fissato obiettivi di emissioni nette zero per il 2050 o prima, in base allo standard SBTi corporate net-zero, uno degli standard net-zero più rigorosi in tutti i settori. Altre 582 aziende si sono impegnate a fissare obiettivi di emissioni nette zero approvati dall’SBTi nei prossimi due anni. Queste convalide da parte di terzi possono aumentare la fiducia degli investitori nelle informazioni divulgate dalle aziende e migliorare la trasparenza degli obiettivi climatici.
La Glasgow Financial Alliance for Net Zero (GFANZ), ad esempio, ha proposto un proprio quadro di riferimento per aiutare gli investitori a valutare la solidità e la credibilità degli obiettivi climatici aziendali. MSCI ha riscontrato che le aziende con obiettivi approvati dallo SBTi hanno in genere ottenuto un punteggio migliore nel quadro della GFANZ rispetto a quelle che non lo hanno fatto (come si vede nel grafico). Ciò potrebbe suggerire che le aziende che hanno seguito un rigoroso processo di validazione degli obiettivi da parte di terzi (ad esempio, l’SBTi) hanno più probabilmente reso noto i piani di transizione e l’allocazione di capitale per le attività di decarbonizzazione e hanno dimostrato di avere un track record di successo – aumentando la trasparenza delle strategie di riduzione delle emissioni e migliorando la fattibilità degli obiettivi climatici.
Con la probabile intensificazione dell’attenzione per gli obiettivi climatici aziendali e l’inasprimento delle normative sulla divulgazione, gli investitori dovrebbero essere in grado di prendere decisioni di investimento sul clima più informate in futuro.
Investire nelle emissioni: Il carbonio come nuova asset class?
In una precedente ricerca MSCI ha affrontato il tema della nascita dei mercati del carbonio, che sono cresciuti fino a superare i 300 miliardi di dollari USA e sono entrati nel mirino di molti investitori. In effetti, nell’ultimo anno si è assistito alla nascita di un nuovo sottoinsieme di fondi che si concentrano specificamente sull’esposizione al prezzo del carbonio.
I fondi focalizzati sui credito di carbonio hanno approcci diversi, ma la maggior parte di essi consente agli investitori di accedere ai crediti di emissione tramite contratti futures o crediti fisici di vari sistemi di scambio di emissioni (ETS). La tesi d’investimento alla base di questi nuovi fondi è che queste esposizioni possono agire come diversificatori di portafoglio, analogamente all’esposizione alle materie prime, consentendo agli investitori un modo per prezzare i rischi di carbonio nei loro portafogli. Se il mondo non riuscisse a ridurre il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C, come teme l’IPCC, l’esposizione diretta alle quote di carbonio potrebbe offrire una protezione al ribasso, in quanto i prezzi del carbonio dovrebbero aumentare per compensare la mancanza di azioni politiche.
La ricerca di MSCI ha dimostrato che gli asset di carbonio hanno fornito rendimenti corretti per il rischio comparabili e hanno mostrato basse correlazioni con l’azionario globale e con altre materie prime nel lungo periodo (vedi grafico). Se l’interesse per questi fondi continuasse a crescere, gli investitori ritirerebbero le quote di carbonio dal mercato, facendo potenzialmente salire il costo delle quote rimanenti, il che potrebbe accelerare gli sforzi di decarbonizzazione.
Tuttavia, se l’offerta di quote di emissioni viene limitata dalla partecipazione massiccia degli investitori, potrebbero verificarsi esiti sociali indesiderati, come l’aumento dei prezzi dell’energia. Le aziende potrebbero trasferire i costi incrementali ai loro clienti, aumentando ulteriormente l’inflazione. Inoltre, i prezzi elevati delle emissioni di carbonio potrebbero dissuadere i grandi emittenti dal partecipare a un mercato che era destinato principalmente a loro.
Con la continua espansione dei sistemi di scambio delle emissioni, anche l’ampiezza della scelta tra questo sottoinsieme di fondi potrebbe aumentare. Inoltre, con l’intensificarsi delle politiche climatiche da parte dei governi, i prezzi del carbonio e la performance dei fondi di crediti di carbonio possono essere un indicatore della severità e dell’efficacia di tali politiche.