Il luogo in cui siamo curati e gli stimoli che riceviamo nel periodo di degenza hanno un peso rilevante per garantire la guarigione. Nel corso del tempo, la medicina si è concentrata sul salvare quante più vite possibile a qualunque costo, lasciando da parte, il più delle volte, il come e il dove queste vite vengono salvate. Eppure, gli operatori del settore sanitario, i professionisti della progettazione e del benessere mentale si stanno rendendo conto di quanto l’ambiente della cura possa influire sui risultati della cura stessa, e si stanno attivando per trasformarlo completamente. Queste le riflessioni al centro del settimo talk del Manifesto dell’Abitare, dal titolo Take Care. Reinventare gli spazi della cura, che ha visto un confronto tra Filippo Taidelli, architetto e titolare dello studio FTA | Filippo Taidelli Architetto, Maurizio Cecconi, a capo del dipartimento di anestesia e terapia intensiva dell’Istituto Clinico Humanitas e vicepresidente del corso di laurea in medicina e bioingegneria “MEDTEC School” della Humanitas University, e Cinzia Petito, giornalista e founder di CloroFeelGood.
Pazienti, famiglie e operatori sanitari: umanizzare la cura
Come trasformare dunque gli spazi della cura per favorire una più veloce e qualitativa guarigione dei pazienti e migliorare le condizioni di lavoro dei professionisti del settore? Per trovare nuove modalità di progettazione che siano efficaci e sostenibili nel tempo, secondo Taidelli, è fondamentale partire dall’ascolto dei bisogni e delle istanze di tutti gli attori che vivono e abitano quotidianamente uno spazio. Pensando dunque agli ambienti della cura, partendo dagli ospedali ma integrando anche i luoghi di formazione sanitaria (e in primis le università di medicina), le persone da considerare – e quindi coinvolgere – nella progettazione appartengono a quattro categorie, ossia pazienti, famiglie, personale sanitario e studenti.
Il ripensamento degli spazi passa poi, per l’architetto, dal concetto di umanizzazione della cura che significa mettere al centro la consapevolezza che due fattori in particolare sono determinanti per agevolare la ripresa di chi è in un periodo di convalescenza (ma non solo): il contatto con la natura che aumenta il benessere degli individui, e la presenza di un contesto familiare positivo.
Non è sempre facile però riuscire a ricreare ambienti naturali negli ospedali così come sono stati concepiti finora. Pertanto, l’idea che sta prendendo piede è quella di mettere la natura alla portata dei pazienti tramite finestre digitali dotate di sistemi che ricreano la luce naturale e immagini di scenari naturali realistici.La luce naturale ha infatti la capacità di diminuire allucinazioni e confusione e nei reparti di terapia intensiva permette di ridurre il periodo di degenza anche per i pazienti più critici. Progettisti e medici stanno quindi creando insieme un nuovo modo di umanizzare gli spazi, costruendo una nuova estetica, alla quale abbinano una nuova etica.
E proprio con questo scopo è nato il progetto di Taidelli con Fujifilm, azienda leader nell’ambito dell’innovazione in campo sanitario. Taidelli ha diretto un think tank progettuale che ha coinvolto aziende designer e artisti con competenze specifiche nell’umanizzazione dello spazio con l’obiettivo di realizzare un progetto concreto in grado di portare il mondo esterno dentro gli spazi della cura. Questo per riattivare quella memoria sensoriale che consente al paziente di riscoprire un mondo interiore in grado di limitare la distanza con l’ambiente terapeutico che diventa più empatico e capace di ridurre lo stress emotivo.
Per quanto riguarda poi la vicinanza dei familiari ai pazienti, ancora oggi è “discutibile quanto le famiglie possano far parte della cura una volta che i pazienti sono ricoverati in ospedale”, ha fatto notare Cecconi. Può risultare infatti difficile anche solo visitare i propri cari, soprattutto in riferimento alle terapie intensive che fino a qualche anno fa erano aperte alle famiglie con orari molto ridotti. L’umanizzazione della cura deve quindi partire dall’abbattimento di queste barriere artificiali e dalla facilitazione delle relazioni. L’aprire le porte dell’ICU (Intensive Care Unit) comporta però, necessariamente, un ripensamento di questi dipartimenti.
“Durante il periodo della pandemia di Covid-19 la difficoltà maggiore non è stata curare i pazienti in sé, l’azione più difficile e con le maggiori conseguenze per il benessere delle persone malate è stata quella di chiudere le visite ai loro cari per evitare il contagio. E così,” ha spiegato Cecconi, “medici e personale sanitario sono dovuti diventare loro stessi le famiglie dei pazienti”.
Ma qual è la condizione in cui il personale sanitario si trova ad operare oggi? Come ricordato da Taidelli, spazi giusti e che rispondano ad esigenze specifiche e uniche aiutano a lavorare meglio. Dal lato del personale sanitario, quindi, la riduzione del gap spazio-persona significa trovare strumenti che amplifichino le capacità del medico senza metterlo in difficoltà e che non lo obblighino a occupare troppo tempo nel pensare di “dover stare dietro” alle nuove tecnologie. Questo discorso è cruciale in un momento in cui si inizia a parlare di umanità 2.0, e da questo punto di vista l’ingegneria genetica e l’intelligenza artificiale sono in grado di dare dei veri e propri superpoteri alla medicina. I nuovi sistemi di dati e IA possono infatti offrire un sistema connesso e integrato come mai prima, e secondo Cecconi si può vedere anche solo dalla preponderanza di data scientists presenti ai congressi di medicina. “Ben vengano le contaminazioni, a patto che gli obiettivi importanti delle persone siano sempre al centro e guidino le scelte d’uso” ha commentato il medico.
Guardando alle tecnologie, è anche fondamentale che gli spazi di adesso siano pensati per il futuro. È cioè necessario che siano progettati per essere flessibili. Visto che le tecnologie cambiano e continueranno a cambiare sempre più rapidamente, gli ambienti degli ospedali devono essere capaci di adattarsi facilmente a nuovi strumenti.
Guardando al futuro
È importante che tale evoluzione della cura e della concezione di ospedale venga diffusa a livello internazionale per essere implementata nei paesi sviluppati e che, al contempo, sia integrata sin da subito nei paesi in via di sviluppo dove spesso si stanno ancora costruendo le prime strutture sanitarie, hanno ricordato i relatori. Inoltre, le prospettive demografiche mostrano un invecchiamento della popolazione, soprattutto per le donne nelle fasce più anziane, grazie alle possibilità di cura in continuo sviluppo. Alla luce di tale tendenza bisogna iniziare a ripensare gli ospedali e l’assistenza sanitaria adesso, per essere in grado di ricevere una domanda maggiore e di soddisfarla in ambienti a misura dell’individuo. Un cambiamento che va percepito anche dalle scelte politiche che devono iniziare a vedere il finanziamento delle unità di terapia intensiva come un investimento e non come un costo, anche per l’importanza che questo tipo di reparti possono avere nelle emergenze, come emerso durante la Pandemia.
Da considerare tra le sfide del futuro per l’assistenza medica, oltre all’invecchiamento della popolazione, ci sono anche la gestione di terapie complesse, nuovi tipi di infezioni e la resistenza agli antimicrobici, nuove diseguaglianze sociali e la disponibilità stessa del personale medico.
E per un ripensamento della cura e dei suoi spazi a 360° non si può non passare anche per un cambiamento degli ambienti in cui il personale medico si forma e si prepara, come le università. Per questi ambienti si può partire dall’abbattimento delle barriere artificiali, da un utilizzo consapevole dei materiali, dall’attenzione al verde, che è un vero e proprio “tessuto connettivo che tiene insieme l’organismo” secondo Taidelli, e dalle possibilità di incontri casuali e aggregazione offerte dalle strutture. Da una parte il verde entra negli spazi produttivi, dall’altra l’esterno è concepito come estensione naturale dello spazio interno, dove l’ombra diventa luogo di socializzazione spontanea che facilita gli scambi.
Ed è proprio seguendo queste logiche che si sta costruendo la nuova sede del corso di laureain medicina ed ingegneria biomedica di Humanitas University in partnership con il Politecnico di Milano, il Roberto Rocca Innovation Building.In un contesto in cui l’università èconcepita come ecosistema, gli edifici, che si estendono su un’area di 6500 mq, permettono di coniugare le idee di flessibilità, personalizzazione e natura. Inoltre, la possibilità di avere in un unico spazio l’università, il centro di ricerca e l’ospedale, favorisce l’interazione e la collaborazione in modo innovativo e funzionale dando concretezza proprio alle modalità di progettazione che lo hanno reso possibile. In questo caso bisogna tener conto della presenza di diversi attori, di spazi e azioni molto diverse tra loro ma necessariamente integrate per andare a creare un ecosistema tra specialismo e multidisciplinarietà.
Torna quindi fondamentale il concetto di flessibilità, in modo che gli spazi possano da una parte diventare luoghi informali per lo scambio interdisciplinare ed essere allo stesso tempo personalizzati e adattati di volta in volta alle esigenze di medici, docenti e studenti, in un’epoca in cui l’apprendimento è molto di più che una lezione frontale.