Se attualmente la revisione della SFDR è sulla bocca di tutti tra gli operatori del settore della finanza sostenibile, “la nuova frontiera della regolamentazione ESG riguarda i rating”. Questo l’esordio dell’intervento di Alessandro Stella, Coverage & Esg Specialist di DWS International, durante l’evento ESG: rating, indici e performance relativa organizzato da AIAF (Associazione Italiana per l’Analisi Finanziaria) per il Salone del Risparmio. In effetti, il tema dei rating sta accentrando su di sé sempre di più l’attenzione delle autorità europee: basti pensare che proprio nelle scorse settimane, l’ESMA ha lanciato una consultazione che terminerà a giugno, per apportare eventuali modifiche al regolamento UE su rating ESG.
Data l’attualità della materia, vediamo nel dettaglio, con l’aiuto dell’esperto di DWS, la realtà attuale del mondo dei rating ESG e le principali sfide che lo riguardano. Faremo poi un excursus anche sugli indici ESG, con l’aiuto di Clino Papa, Xtrackers Sales di DWS International.
I rating ESG
Perché i rating ESG sono importanti? Perché sono degli indicatori che esprimono un giudizio sulla performance di un emittente, di un titolo o di un fondo, rispetto ai tre fattori di sostenibilità. Sono quindi uno strumento fondamentale per gli investitori per individuare le aziende più virtuose e le società che invece hanno bisogno di un maggiore incoraggiamento.
Sono tanti gli aspetti a cui prestare attenzione quando si esamina il mondo dei rating ESG, ma le metodologie utilizzate e l’attenzione ai dati, sono tra i principali. “I dati sono il cibo della valutazione della qualità ESG di un portafoglio”, spiega Stella. Si inizia quindi dalla raccolta cosiddetta “grezza”, partendo dai bilanci di sostenibilità e da indicatori finanziari. Successivamente, si avvia una fase di elaborazione che prevede l’individuazione di diversi elementi per ciascun pilastro dell’ESG (Environmental, Social, Governance). Ad esempio, per la parte ambientale, temi rilevanti sono spesso il cambiamento climatico, la biodiversità, la gestione dei rifiuti, mentre per l’area social la questione dei diritti umani o dei lavoratori, ma anche la gestione della supply chain. Per la governance, invece, è importante la diversità nei board (in termini di genere e di competenze), o la remunerazione dei dipendenti.
Per quanto riguarda gli approcci e le metodologie, esse sono molto varie a seconda delle agenzie di rating presenti sul mercato.
MSCI ESG, uno dei provider più utilizzati, costruisce una mappa di materialità sulla base dei tre pilastri dell’ESG e individua 10 temi trasversali, 35 elementi legati a potenziali rischi di performance finanziaria dell’azienda. Gli elementi variano in base ai settori: la gestione dell’acqua, ad esempio, è rilevante per il settore beverage, ma non per quello finanziario. Per ciascun pilastro ESG, MSCI valuta il ruolo di questi elementi essenziali, per giungere poi a uno score per pilastro. L’agenzia fa infine una media, normalizzata per settore, e esprime il giudizio tramite le lettere finali.
Un altro noto fornitore di rating, Morningstar, valuta portafogli, fondi e titoli tramite il branch Sustainalytics, che attribuisce a ciascun soggetto esaminato le famose stelle che indicano la loro qualità ESG. L’azienda parte dall’analisi del rischio di sostenibilità, focalizzandosi in particolare su quello che l’impresa non riesce a gestire, e individua così quello che definisce “management gap”, ovvero i fattori di sostenibilità non gestiti. Lo score finale si basa su una storicità di 12 mesi, per capire come varia in quella frazione di tempo: la media è il punteggio definitivo. Una particolarità di questo rating è che viene assegnato anche ai governi, il che implica valutazioni e considerazioni soggettive e di stampo politico. Nel dettaglio, viene osservato lo stock di capitale e si cerca di capire come quel governo ha mantenuto lo stock e come lo ha fatto crescere.
Ma quali sono le sfide che oggi il settore dei rating ESG deve affrontare? Prima di tutto, non esistono linee guida precise che aiutino le agenzie nell’adottare un approccio univoco. In secondo luogo, la qualità dei dati è a volte dubbia e si pone quindi un problema di affidabilità, sebbene, con gli sviluppi normativi che impongono requisiti di rendicontazione più stringenti, tale aspetto dovrebbe migliorare. La criticità più rilevante è però quella della dispersione: una stessa azienda può ricevere da agenzie di rating ESG score molto diversi tra di loro e l’eterogeneità comporta scarsa comparabilità e bassa correlazione. Infine, c’è un problema di trasparenza anche rispetto alle metodologie utilizzate dalle aziende, in alcuni casi non si capisce il processo in dettaglio.
Secondo Alessandro Stella, la soluzione per risolvere alcuni di questi problemi è adottare un approccio multi-vendor, ovvero non affidarsi a un solo data provider ESG, ma anzi fare una media tra i vari score e normalizzare tale media in base ai settori di appartenenza. Il risultato è un rating proprietario, che aiuta a costruire omogeneizzazione.
Indici ESG
Un altro strumento fondamentale per chi si occupa di finanza sostenibile, sono gli indici ESG. si tratta di un set di indicatori concepiti per misurare e monitorare le performance di sostenibilità di un’azienda. Per tale motivo, hanno un peso sempre più rilevante sulle decisioni di asset allocation degli investitori.
“Come scegliere, dunque, un indice invece che un altro?”, si chiede Clino Papa, Xtrackers Sales di DWS International, riferendosi alla costruzione di un portafoglio o alla definizione di un ETF. Analizzando un sottoinsieme dell’universo esistente a livello globale, quello degli oltre 600 ETF ESG quotati su Borsa italiana, si osservano quattro categorie diverse di indici, che corrispondono a obiettivi e approcci differenti.
Ci sono gli indici con un approccio basato sulle esclusioni, il 23% del totale, che è un primo modo per avvicinarsi al mondo degli investimenti ESG. In questo caso, si parte dall’indice a capitalizzazione di mercato tradizionale, come il MSCI World, e si applicano i filtri delle esclusioni, relativi al settore di attività o al rating ESG.
Il secondo approccio, quello basato su “best in class”, è il più diffuso (50% del campione analizzato da Papa). Qui si adotta il criterio della selezione positiva best in class, osservando in ciascun settore o Paese, le realtà con un rating ESG migliore. Non si esclude, quindi, un settore solo per definizione, ma le aziende che presentano performance extra finanziarie inferiori. Questa caratteristica può creare una forte differenza tra la performance dell’indice ESG e quello tradizionale e, quindi, distorsioni geografiche e settoriali.
L’approccio basato su clima, invece, è legato a due tipi di indici climatici specifici: i CTB (Climate Transition Benchmark) e i PAB (Paris-Aligned Benchmark), primi indici paneuropei creati in sede dell’Accordo di Parigi. Essi hanno due percorsi differenti a seconda del tracking error che si vuole ottenere. L’indice CTB è la prima forma per avvicinarsi agli obiettivi climatici e prevede una riduzione del 30% delle emissioni in portafoglio. Il PAB, invece, che punta a una riduzione del 50%, è più ambizioso. Ad accomunarli, dunque, l’esigenza di ridurre le emissioni di CO2 nel portafoglio e i requisiti di decarbonizzazione minimi annuali, pari al 7% ogni anno fino al 2050. Si tratta di quei requisiti minimi che devono essere rispettati nel tempo da un indice per poter essere etichettato CTB o PAB dalle agenzie di rating, ma gli indici provider più ambiziosi potrebbero fissarne di più stringenti.
L’ultima categoria, quella dell’approccio tematico, è a sé stante. Gli investimenti tematici, infatti, sono strategie molto più concentrate nel senso che cercano di dare esposizione a tutti i megatrend attuali della sostenibilità. In queto caso, quindi, si è in presenza di indici verticali su un tema. Tra questi, i più diffusi sono quelli sulla transizione energetica. “Tuttavia”, osserva Papa, “nonostante la loro rilevanza, oggi gli investimenti tematici sono ancora una categoria inferiore e più volatile in termini di raccolta perché possono avere un tracking error significativo rispetto alle strategie più familiari.
In merito alle performance storiche degli indici ESG rispetto a quelli madre, osserva Papa, è chiaro che stanno battendo i benchmark di mercato tradizionali. I primi della classe sono quelli basati sull’approccio best in class. “Ciò che conta”, conclude l’esperto, “è che l’ESG è qui per restare. L’obiettivo di perseguire scopi extra finanziari deve andare a braccetto con quello di raggiungere risultati finanziari. Senza entrambi il futuro, semplicemente, non esiste”.