Gli oceani ricoprono tre quarti della superficie terrestre e garantiscono il sostentamento di oltre 3 miliardi e mezzo di persone. Si prevede che entro il 2030 la blue economy crescerà a un ritmo doppio rispetto all’economia tradizionale. Il valore economico delle risorse globali dell’oceano è stimato già a oltre 24 mila miliardi di dollari, il che la rende la settima economia più grande per PIL a livello globale. Numeri che evidenziano l’estrema importanza di questa risorsa che continua a essere sfruttata selvaggiamente, con il rischio che vada presto a esaurirsi dal punto di vista della biodiversità.
Tra le sfide maggiori che stiamo affrontando su questo fronte, la pesca eccessiva, la carenza di adeguati standard di pesca, l’inquinamento da plastica e le infrastrutture di riciclo insufficienti rischiano di minare fortemente la preservazione degli ecosistemi marini. L’“overfishing”, la pesca intensiva e non regolata, oltre a determinare importanti conseguenze sulla biodiversità marina, influisce anche sulla riduzione di redditività delle imprese marittime. Con sistemi di gestione più intelligenti e un’adeguata regolamentazione sarebbe possibile porre un freno allo sfruttamento dei mari, tutelando al tempo stesso gli interessi degli stessi pescatori che sono indissolubilmente legati alla salute a lungo termine dei fondali e dei mari. Si andrebbe in questo modo a dare una spinta alla relazione direttamente proporzionale tra il miglioramento del loro reddito e la qualità di vita della popolazione ittica. Ovviamente, affinché gli standard e la regolamentazione funzionino appieno è necessaria la cooperazione degli attori coinvolti, in mancanza della quale si rischia l’esaurimento di una risorsa preziosa ma scarsa.
Un tema questo che è tornato di stretta attualità con gli ultimi negoziati sulla Brexit. La mancanza di collaborazione tra Stati ha fatto passare in secondo piano la questione degli standard di sostenibilità. Passi in avanti sono stati compiuti con l’approvazione di un accordo tra l’UE e il Regno Unito sulle possibilità di pesca per il 2022, che stabilisce i diritti di pesca per circa 100 stock ittici condivisi nelle acque dell’UE e del Regno Unito, così come il totale ammissibile di catture (TAC) per ciascuna specie, sebbene alcune di esse non siano coperte dall’accordo e continuino quindi a essere pescate senza controlli.
Tra le altre sfide che vanno affrontate sul fronte della tutela dei mari, c’è sicuramente anche il ricorso eccessivo alla plastica. Secondo stime del WWF, ogni anno vengono prodotte 450 milioni di tonnellate di plastica. Un rapporto pubblicato dalla ONG britannica Environment Investigation Agency (EIA) e basato su recenti dati scientifici, stima che entro il 2025 ci saranno 250 milioni di tonnellate di plastica nell’oceano. Numeri destinati quasi a triplicare entro il 2040, a circa 700 milioni di tonnellate – pari al peso della popolazione marina di tutto il mondo. Entro il 2050, la quantità di plastica potrebbe “superare di gran lunga” il peso dei pesci. L’emergenza legata alle plastiche e microplastiche è diventata sempre più pressante, al punto che nei nostri oceani iniziano ad affiorare le “Great Garbage Patch” vere e proprie isole di plastica e rifiuti che si sono formate negli anni con l’accumulo dei detriti portati dalle maree. Per porre fine a questo fenomeno è necessario investire nell’economia circolare e nelle soluzioni che permettono una riduzione dell’inquinamento. Diverse società si stanno muovendo attivamente su questo fronte. Basti pensare a Recycleye, un’azienda tecnologica che utilizza il machine learning avanzato, la computer vision e la robotica per trasformare i rifiuti.
In questo contesto gli SDG ONU – e in particolare l’obiettivo 14: Conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile – assumono una rilevanza fondamentale al fine di assicurare un’attenta gestione di questa fondamentale risorsa globale. Un supporto importante in questo senso può venire dal mondo finanziario. Sono sempre più frequenti, infatti, le emissioni di Blue Bond, un sotto insieme dei green bond, con cui si punta a raccogliere capitale da investitori d’impatto per finanziare progetti marini e oceanici che abbiano benefici ambientali, economici e climatici positivi. Il successo del primo Blue Bond, emesso dalla Repubblica delle Seychelles nel 2018, che ha raccolto oltre 15 milioni di dollari dagli investitori, evidenzia il potenziale di questi strumenti. Nel 2019, anche la Banca Mondiale, al fine di attirare l’attenzione sull’inquinamento dei rifiuti di plastica negli oceani, ha lanciato un’obbligazione blu rivolta sia agli investitori istituzionali che a quelli individuali, che ha raccolto 10 milioni di dollari. Da allora, cresce sempre di più il numero di emittenti di queste obbligazioni. Sebbene sia sicuramente troppo presto per valutare il tasso di crescita del mercato delle obbligazioni blu, non è azzardato affermare che rappresentino strumenti particolarmente utili per sensibilizzare gli stakeholder e raccogliere al contempo i finanziamenti necessari ai progetti legati alla salvaguardia dei mari.
Ma gli investitori possono fare molto di più. In particolare, possono instaurare un dialogo continuo con le imprese e far leva sull’esercizio dei loro diritti di voto per guidare le imprese verso scelte più responsabili e trasparenti. L’engagement che è un processo di medio lungo periodo può essere affiancato a un’attività di esclusione di singoli emittenti, settori o paesi dall’universo investibile, sulla base di determinati principi e valori. Tra le altre strategie, cui possono ricorrere gli investitori assumono particolare rilevanza anche l’approccio best in class, l’impact investing, gli investimenti tematici che permettono di selezionare gli emittenti in portafoglio secondo criteri ambientali, sociali e di governance, concentrandosi su uno o più temi e la selezione degli investimenti basata sul rispetto di norme e standard internazionali.
Un report recente di Euronext ha evidenziato che sono circa 162 le società quotate sui propri mercati nei settori legati alla Blue Economy, con una capitalizzazione di oltre 675 miliardi di euro e un fatturato complessivo che supera gli 840 miliardi di euro. Sempre più società presidiano il settore, offrendo soluzioni e tecnologie innovative, come Aquafil che riutilizza vecchie reti da pesca per produrre fibre sostenibili o Adidas che ha collaborato con Parley per il Parley Ocean Plastic®, nato per riciclare rifiuti plastici, utilizzati per sostituire la plastica vergine nella produzione di tutti i prodotti adidas x Parley.
Anche gli enti sovranazionali stanno prestando sempre più attenzione al tema. Al fine di sostenere investimenti in imprese attive nei settori della Blue Economy, l’Unione Europea ha istituito il “BlueInvest Fund” un fondo di 75 milioni di euro, con cui punta ad accelerare il raggiungimento degli obiettivi posti dal Green Deal. La Blue Economy rappresenta veramente un universo in continua espansione a cui gli investitori devono prestare sempre più attenzione.