Fabrizio Negri Cerved Rating Agency | ESG News

Intervista

Negri (Cerved Rating Agency): “Integrare la sostenibilità faciliterà l’accesso al credito”

I fattori ESG rappresentano un elemento sempre più importante nelle valutazioni di merito creditizio. In un’Europa che supporta e spinge verso la transizione sostenibile, i rischi ambientali, sociali e di governance non possono essere trascurati nelle valutazioni dei complessivi rischi aziendali, sia per indirizzare le risorse finanziarie verso percorsi più sostenibili, sia per diminuire i rischi di sistema minimizzando gli eventuali “rischi di fallimento” delle imprese con i conseguenti impatti sul sistema finanziario. All’avanguardia in questo tipo di analisi, Cerved Rating Agency, l’agenzia di rating italiana specializzata nella valutazione del merito di credito di imprese non finanziarie italiane e sul grado di sostenibilità degli operatori economici, ha sviluppato da tempo una propria metodologia per includere anche i rischi ESG nei propri rating di credito.

“La necessità crescente di integrare i fattori ESG nelle valutazioni del rischio di credito delle aziende è il punto di arrivo di un percorso obbligato, tracciato dalle istituzioni europee sia per consentire un miglioramento del rischio complessivo di impresa sia per supportare il raggiungimento degli obiettivi di transizione verso una economia più sostenibile. E dalle evidenze del nostro “osservatorio permanente” sulla relazione tra probabilità di default e valutazioni ESG emerge una correlazione positiva tra minor grado di rischiosità e le migliori performances in ambito di sostenibilità. Le imprese con le migliori performance ESG avranno un più ampio e meno costoso accesso alle risorse finanziarie necessarie per sostenere il proprio sviluppo” osserva Fabrizio Negri, CEO di Cerved Rating Agency intervistato da ESGnews a margine dell’intervento La Transizione Green e gli impatti sul rischio di credito delle imprese italiane in occasione dell’evento organizzato da BPER Banca IPO vs OPA: chi vincerà nel 2023 e perché?

In che modo Cerved Rating Agency integra i fattori ESG nelle valutazioni di merito creditizio?

Come da richiesta della nostra autorità di vigilanza l’ESMA, l’autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati, dal 2020 abbiamo reso pubblica la modalità con la quale integriamo i fattori ESG nei nostri rating di credito. In particolare, in termini di dati, ci avvaliamo del set informativo desumibile dalle note integrative dei bilanci, dai bilanci di sostenibilità, dal web, dalle rassegne stampa o dalle informazioni raccolte in sede di intervista. In termini metodologici, invece, i fattori considerati – per citarne qualcuno – spaziano dall’efficienza energetica alla gestione e smaltimento rifiuti, dalle politiche in tema di risorse umane alla sicurezza sul posto di lavoro, dalla qualità del management agli organi di controllo. 

Qual è il fattore ESG che incide maggiormente nelle vostre valutazioni sul merito di credito?

Dai primi dati emersi dalla nostra ricerca Cerved ESG Connect 2022 su un campione di oltre 20.000 aziende a cui l’agenzia assegna il rating di credito, emerge che, mentre nel 45% delle valutazioni i fattori ESG non hanno impatto e “confermano” il rating precedente, in ben il 54% dei casi l’integrazione dei fattori ESG comporta una variazione del merito di credito. Per una quota minoritaria di aziende più virtuose consiste in un miglioramento (12,64%), ma per una buona percentuale si riscontra una diminuzione (41,38%) del rating creditizio. Il fattore ESG che impatta maggiormente è la governance, che comprende aspetti come eventi negativi a carico dei soci e del management, i modelli organizzativi certificati e l’esistenza o meno di un sistema di monitoraggio dei KPI ESG. Impattano anche i fattori legati all’ambiente, come le emissioni di CO2 e l’adozione di policy ambientali o di investimenti a impatto positivo e gli aspetti sociali come il welfare aziendale, la formazione e la gestione delle risorse umane.

Commentando ora le novità introdotte dalla Tassonomia Europea quali sono le prime evidenze che avete riscontrato?

In primo luogo, appare utile ricordare che gli obiettivi dell’UE in materia di sostenibilità, quali la riduzione delle emissioni nette di gas serra del 55% entro il 2030, la neutralità carbonica al 2050, il recupero della biodiversità al 2030 e lo sviluppo di un sistema di economia circolare a regime entro il 2030, sono molto ambiziosi. Per raggiungere tali aspirazioni saranno necessari ingenti investimenti. Basti pensare agli oltre 800 miliardi di euro previsti dalla UE, attraverso il Next Generation EU, per finanziare la transizione sostenibile. In questo senso la classificazione, attraverso la Tassonomia ambientale europea, delle attività economiche che possono definirsi sostenibili è propedeutica allo scopo di indirizzare gli investimenti verso un’economia low carbon. Ad oggi in Italia, secondo le nostre elaborazioni, solo il 25,8% delle imprese italiane svolge attività ammissibili per la Tassonomia, dato che sembra lasciare fuori una grande parte del tessuto industriale italiano. Al contempo, questo elemento si riflette anche sulla quota di esposizioni relative ad attività ammissibili ai sensi della Tassonomia rispetto agli attivi totali delle banche (cosiddetto Green Asset Ratio semplificato), che al momento in media è pari al 21,2% per gli istituti di credito italiani.

Una quota significativa di attività, quindi, resta al di fuori della Tassonomia. C’è il rischio di creare una piccola cerchia di aziende virtuose, escludendo però la maggior parte delle realtà produttive?

In realtà bisogna tenere presente che siamo solo all’inizio di un percorso di definizione di cosa sia e cosa non sia sostenibile. L’apparato industriale italiano è molto eterogeneo ed esprime eccellenze in numerosi ambiti. Al momento la Tassonomia copre solo due dei sei obiettivi climatici e ambientali: il contrasto e la mitigazione del cambiamento climatico. Questo significa che per il momento sono stati stabiliti i criteri tecnici per la definizione delle attività sostenibili che hanno un impatto in questo ambito. Non è stato ancora preso in considerazione, invece, l’obiettivo riguardante l’economia circolare, che potrebbe aumentare la percentuale delle attività italiane ammissibili. Un altro appunto è poi metodologico: noi abbiamo effettuato la ricerca basandoci sul codice Ateco, la Tassonomia invece opera a livello di singola attività economica e quindi è possibile che abbiamo intercettato meno attività perché un’azienda può essere iscritta alla camera di commercio con un codice Ateco, ma poi operare in più attività, seppure in misura minore a quella principale per cui è registrata.

Quali ritiene siano i maggiori rischi e le opportunità della transizione green per le imprese italiane soprattutto in termini di impatto sul rischio di credito?

La tendenza europea è chiara e spinge le imprese, per potere avere un accesso più facile ai finanziamenti, ad adattarsi in misura sempre maggiore a un modello in cui la sostenibilità sia integrata nella strategia di business. I risultati di Cerved ESG Connect 2022 mostrano una evidenza chiara: le imprese leader in termini di sostenibilità cioè quelle che offrono beni e servizi funzionali al raggiungimento degli obiettivi di Parigi in tema di surriscaldamento globale (dalla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili a quella di batterie, all’efficientamento edilizio alle soluzioni data-driven per la riduzione di emissioni), sono quelle che trarranno il maggior beneficio dalla transizione green. Un vantaggio competitivo che si tradurrà in minore rischio di default (-16% al 2025 e -23% al 2030) e maggiore possibilità di ricevere finanziamenti.

Al contrario, la probabilità di default, stimata tramite un’analisi di stress, dei settori più esposti alla transizione green, cioè i laggard, è prevista in aumento del 10% al 2025 e del 16% al 2030. Per questo gruppo potrebbe delinearsi in termini generali un deterioramento significativo della qualità creditizia dovuto principalmente al calo della domanda per i prodotti o servizi offerti. In assenza di investimenti massicci, le difficoltà di allineamento alla tassonomia green potrebbero portare svantaggi a tali imprese nei prossimi anni. In quest’ottica, adeguarsi alla volontà del legislatore europeo, integrando politiche di sostenibilità nel proprio modello di business, porterà a una riduzione del rischio e permetterà di attrarre maggiori risorse finanziarie.

E dalla prospettiva delle banche? Qual è la loro capacità di integrare i fattori ESG nelle procedure di valutazione del rischio di credito?

Negli ultimi tre anni abbiamo assistito a una crescente attenzione da parte delle banche, spinte dalle richieste dei regolatori, verso l’analisi e l’integrazione dei fattori ESG. L’approccio è ancora molto legato a un’ottica di trasparenza bancaria – quindi relativa al Pillar 3 – e si focalizza per lo più sui rischi climatici e ambientali a livello di portafoglio; in misura ancora ridotta verso i rischi legati a tematiche sociali o di governance. In ottica creditizia, inoltre, si inizia a ragionare in termini di screening atti a favorire alcuni settori o attività economiche rispetto ad altri o a meccanismi che prevedano premialità nei confronti delle aziende che si impegnano sul fronte della sostenibilità, per esempio una riduzione del costo del capitale a fronte del raggiungimento di determinati risultati. Sul fronte del rischio, invece, siamo all’inizio di un percorso che diventerà molto interessante nei prossimi anni.