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Colombo (Etica Sgr): il sistema produttivo dipende dalla biodiversità, perderla è un rischio finanziario

La biodiversità è un elemento su cui si basano gran parte delle attività dell’uomo. Spesso però manca una consapevolezza sull’importanza della natura per il sistema produttivo. Una lacuna sulla quale gli investitori finanziari sono sempre più consapevoli. La crisi della biodiversità, secondo alcune stime della Banca Mondiale, potrebbe fare perdere al PIL globale fino a 2,7 trilioni di dollari entro il 2030. In questo senso la mancanza di strategie ben definite per proteggerla rappresenta un vero e proprio rischio finanziario. La sfida è quindi individuare come incorporare questi elementi negli investimenti finanziari, con l’obiettivo di fare emergere sui mercati il valore delle risorse naturali. Ne abbiamo parlato, in questa intervista a ESGnews.it, Cristina Colombo, ESG Analyst di Etica Sgr, società pioniera della finanza etica e prima società di gestione italiana ad aderire ai Principles for Responsible Investment (PRI) delle Nazioni Unite nel 2009, che dal 2000 offre esclusivamente soluzioni di investimento responsabili.

Quali sono le ragioni che rendono importante considerare la biodiversità anche nelle strategie di investimento?

Per un investitore istituzionale come noi, che gestiamo fondi con un orizzonte temporale tipicamente di medio-lungo periodo, è fondamentale ricercare opportunità di investimento che possano generare valore nel tempo. Il degrado della biodiversità è un fattore di rischio che potrebbe andare ad impattare la stabilità delle società e pertanto deve essere considerato in una strategia di investimento consapevole che guarda al lungo periodo. Risulta quindi fondamentale verificare  l’esistenza di meccanismi in grado di garantire la resilienza del valore negli anni. Questo significa, ad esempio, individuare le società che adottano pratiche di gestione e uso sostenibile della natura, tramite Nature Based Solutions quali l’agricoltura sostenibile o la gestione forestale responsabile, per affrontare le sfide economiche, sociali e ambientali. 

Quindi monitorare la biodiversità permette un migliore controllo dei rischi?

Sì, in quanto la resilienza delle imprese dipende dallo stato della natura. Con l’accelerazione della perdita di biodiversità si accelerano anche i rischi operativi che le imprese devono affrontare e si mina anche la fiducia degli investitori. La natura infatti offre i cosiddetti servizi ecosistemici: beni e servizi fondamentali sia per il nostro benessere, che per la solidità delle società nelle quali si investe. La maggior parte delle aziende basa il proprio business sulle materie prime fornite dalla natura come l’acqua, il legname, i cereali o il cotone. Comprendere quindi come queste società gestiscono la protezione dell’ambiente è fondamentale per comprendere quanto saranno in grado di affrontare le sfide del futuro e cogliere quindi anche maggiori opportunità di redditività prospettica.

Quali settori sono più esposti ai rischi legati alla biodiversità e come Etica Sgr valuta questa esposizione?

Ci sono indubbiamente dei settori molto più impattati rispetto ad altri per via del loro business. Ad esempio, tutto il mondo dell’agricoltura e del food risulta uno dei settori più dipendente dalla natura e quindi maggiormente esposto ai rischi correlati. È fondamentale fare una valutazione attenta di queste società partendo sempre da un’analisi a 360 gradi che comprenda anche la governance e la parte sociale, dedicando poi un approfondimento maggiore ai rischi ambientali.
Per quanto riguarda il mondo dell’agricoltura, ad esempio, un elemento molto importante è vedere se l’azienda ha messo in campo le già citate Nature-based Solutions che possono aiutare a creare ecosistemi più resilienti, in grado di affrontare sfide come la siccità e lo stress idrico dei terreni, tema sempre più rilevante a causa del cambiamento climatico.
Nel comparto del food viene data grande attenzione al tema dell’agricoltura sostenibile e rigenerativa, quindi come viene gestito un campo, quali azioni sono messe in pratica per evitare di sovrasfruttare la natura, poiché questo fa diminuire la resilienza e la capacità di generare un profitto nel lungo periodo. 

Esistono strumenti per quantificare la perdita di biodiversità delle aziende?

Per analizzare le migliaia di società di un potenziale universo investibile ci avvaliamo di diversi data provider, tra cui CDP (Carbon Disclosure Project) o altre fonti dati che utilizzano tecnologie avanzate, come la geolocalizzazione. Queste ci permettono di ottenere informazioni molto dettagliate per esempio relative ai consumi idrici in una determinata zona già ad alto stress idrico. I dati grezzi rappresentano un’ottima base di partenza ma non sufficiente. Dopo un primo screening per individuare le società potenzialmente più esposte ai rischi, inizia il vero lavoro di dialogo diretto con le aziende per approfondire le peculiarità di ciascuna realtà e le strategie adottate per affrontare le sfide specifiche.

Riprendendo l’esempio precedente, se viene individuata una società con elevati consumi di acqua in una zona a forte stress idrico, il dialogo può aiutare a comprendere se l’azienda è consapevole del tema, se sta mettendo in atto pratiche per gestire i rischi correlati ed è quindi in grado di preservare, nel lungo periodo, la propria sostenibilità operativa e, di conseguenza, la capacità di generare valore.

Quali sono le metodologie per quantificare l’impatto della perdita di biodiversità sugli investimenti?

Arrivare a tradurre in un valore finanziario i dati sulla biodiversità è una delle questioni centrali. Il cambiamento climatico, per esempio, è molto più semplice da quantificare: abbiamo le emissioni di CO₂, un dato numerico che consente di capire con relativa facilità quanto un’azienda stia contribuendo ad aggravare il problema o, al contrario, quanto si stia impegnando per allinearsi con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi.

La biodiversità, invece, è un tema molto più complesso. Si basa su diversi driver, identificati dalla comunità scientifica, tra cui l’uso del suolo, l’inquinamento, il cambiamento climatico e la diffusione di specie invasive (non autoctone), che possono compromettere gli ecosistemi locali. In questo contesto, ottenere un “numero magico” – ovvero un indicatore sintetico – è decisamente più difficile.

Esistono però degli strumenti. Un grande passo avanti è stato fatto grazie al lavoro della TNFD (Taskforce on Nature-related Financial Disclosures), che ha mappato una serie di strumenti concreti, con nomi e caratteristiche precise, in grado di restituire una quantificazione della cosiddetta “biodiversity footprint”. Questo rappresenta un primo indicatore utile per iniziare a integrare la biodiversità nelle valutazioni aziendali e nei report finanziari.

Le aziende stanno migliorando la rendicontazione delle informazioni legate alla biodiversità? Dal suo osservatorio come è stata accolta la pubblicazione delle linee guida della TNFD?

La rendicontazione in materia di rischi e opportunità legato alla biodiversità e la determinazione della cosiddetta biodiversity footprint sono tematiche meno consolidate. La TNFD (Taskforce on Nature-related Financial Disclosures) fornisce diversi strumenti per realizzare questo tipo di mappature e costruire le metriche relative ai diversi settori. Il giudizio non può quindi che essere positivo su questa iniziativa globale che offre alle istituzioni finanziarie di tutto il mondo, così come a governi ed imprese, una guida per rendicontare l’impatto e la dipendenza dalla natura. La TNFD è guidata da un gruppo di circa 40 membri, una taskforce fra varie istituzioni finanziarie, società e fornitori di servizi proprio con l’obiettivo di rendere le informazioni in questi ambiti più fruibili e comparabili, rendendo quindi le considerazioni ambientali più integrabili nelle strategie e nei processi decisionali aziendali.

Nel 2020, Etica Sgr era l’unica Sgr italiana ad aver sottoscritto nel 2020 il Finance for Biodiversity Pledge, l’impegno del mondo della finanza per tutelare la biodiversità. In cosa consiste?

È l’impegno da parte del mondo della finanza di riconoscere la propria parte di responsabilità sulla perdita e il degrado di biodiversità. Hanno aderito finora 194 società di 29 paesi che gestiscono circa 23 trilioni di euro. Il Pledge si struttura in cinque obiettivi che riguardano il knowledge sharing, il dialogo con la società, che è la parte fondamentale, la valutazione degli impatti, il target setting e il reporting annuale. Ogni firmatario deve impegnarsi a raggiungere obiettivi attraverso azioni concrete, ma strutturate sulla specificità della sua realtà. Questo consente, anche a chi ha appena iniziato ad affrontare il tema, di avere da un lato un network internazionale con cui confrontarsi e dal quale imparare grazie ai numerosi webinar e meeting messi a disposizione dal Finance for Biodiversity; dall’altro di avere la flessibilità per progettare una strategia per il monitoraggio e la gestione degli aspetti nature-related che sia solida, ma basata sulle proprie peculiarità societarie.

Come avviene l’engagement con le aziende per migliorare la loro trasparenza in tema di biodiversità?

Si parte individuando le società considerate “critiche”, ovvero quelle dei settori a maggior impatto. Dopodiché si cerca un contatto per iniziare un dialogo che può essere sia singolo che collaborativo. Per quanto riguarda l’engagement di Etica Sgr, l’anno scorso abbiamo contattato 92 società e circa il 15% aveva già un impegno formale nel rendicontare attraverso la TNFD. Altre società si sono dimostrate sensibili al tema e stanno iniziando le prime valutazioni interne per poter poi fare disclosure pubblica. Lato engagement collaborativo invece è uno strumento molto utile per condividere sia conoscenze e competenze tra investitori, sia per avere una massa critica con cui far leva sulle società. Tra le iniziative Etica, ad esempio, fa parte di Spring, l’iniziativa del PRI per mitigare gli impatti negativi della biodiversità e migliorare le business practices. 

Quali passi concreti può fare il settore finanziario per trasformare la tutela della biodiversità in un motore di valore economico?

Le attività di conservazione e recupero della biodiversità comportano importanti benefici economici: secondo la valutazione d’impatto condotta dalla Commissione Europea nel 2023, il rapporto benefici/costi di questi interventi è di 14,7. Ciò significa che ogni euro investito in biodiversità determina vantaggi per la collettività stimati a €14,7. Per l’Italia si stimano guadagni netti per €70 miliardi entro il 2050. Queste stime evidenziano quindi che la tutela della biodiversità può diventare un volano per l’economia e generare valore. Il mondo finanziario dovrebbe quindi acquisire sempre più consapevolezza dell’importanza del tema e cercare di indirizzare capitali verso le attività più virtuose che possono contribuire al ripristino e al recupero della natura. Ciò significa iniziare a valutare impatti, rischi e opportunità del proprio portafoglio tramite i diversi strumenti che ad oggi esistono per cercare di avere portafogli più resilienti in grado di generare valore nel tempo.

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