Decarbonizzare l’industria energivora italiana costerà 2,8 miliardi di euro l’anno al 2030, ma non farlo e rimanere allo status quo costerà di più: 3,5 miliardi di euro l’anno. Sono queste le stime aggiornate dello studio di Boston Consulting Group (BCG), Industrial Decarbonization Pact, le quali evidenziano l’urgente necessità di investire in decarbonizzazione per preservare competitività, posti di lavoro e Pil.
I settori ad alto consumo energetico, noti come “hard-to-abate” (HTA), affrontano una sfida cruciale nell’abbattimento delle emissioni di CO2 entro il 2030, anno in cui ci si aspetta un taglio del 55% delle emissioni rispetto ai livelli del 1990. Questi settori, che includono ceramica, chimica, cemento, acciaio a ciclo integrato, acciaio da forno elettrico, carta, vetro e fonderie, sono essenziali per l’industria italiana, ma il loro peso sul clima richiede un’azione immediata. Gli HTA del nostro Paese, infatti, raccolgono circa il 64% delle emissioni dirette totali di Scope 1 (quelle generate dalle aziende), e circa il 18% se si considerano anche quelle di Scope 2 (emissioni indirette come il consumo di elettricità).
L’aggiornamento delle stime già raccolte nello studio sull’Industrial Decarbonization Pact, l’alleanza tra i settori industriali energivori italiani per accelerare la transizione ecologica dello Stivale, evidenzia che il costo della transizione verde in questi settori potrebbe raggiungere i 20 miliardi di euro entro il 2030, con un aumento di 15 miliardi rispetto alla stima precedente. Tuttavia, come affermano Marco Moretti, Managing Director e Partner di BCG, e Ferrante Benvenuti, Partner di BCG, non agire costerebbe ancora di più. Infatti, prendendo in considerazione i prezzi della CO₂ più elevati, pari a 160 euro per tonnellata al 2030, il costo della mancata decarbonizzazione in Italia potrebbe arrivare a circa 3,5 miliardi di euro all’anno.
“Mentre le principali leve per ridurre le emissioni sono rimaste invariate, da un lato la recente spinta inflativa ha portato a un aumento del costo degli investimenti necessari, dall’altro, si sta verificando una parziale riduzione del gap tra i costi operativi degli impianti tradizionali rispetto ai nuovi assetti produttivi innovativi in seguito all’aumento dei prezzi dell’energia”, ha spiegato Moretti, che sottolinea anche l’importanza della transizione, “il percorso di decarbonizzazione consentirà all’industria italiana di rimanere competitiva, preservando posti di lavoro e Pil.”
Il motore principale per il successo della transizione verso un’economia a basse emissioni è ancora una volta l’innovazione. Come spiega Benvenuti, “le principali leve sono l’elettrificazione dei processi, finalizzata alla riduzione del consumo di combustibili fossili, l’utilizzo di green fuel come, ad esempio, il biogas, i nuovi progetti di cattura, utilizzo e stoccaggio della CO₂ (CCUS). Ma anche la digitalizzazione dei processi, con un particolare focus sull’efficientamento energetico dei processi produttivi delle imprese energivore e l’economia circolare, che abiliterà un cambio di passo verso l’impiego di nuovi materiali e lo sviluppo di nuovi modelli di business.”
Cosa significa per le aziende energivore italiane non decarbonizzare e rimanere allo status quo?
I rischi per le aziende energivore italiane di rimanere allo status quo e quindi non investire nella decarbonizzazione sono significativi e riguardano tre fattori, ossia mancati volumi di vendita per minore competitività rispetto alle aziende concorrenti che offrono prodotti verdi, necessità di acquistare un quantitativo superiore di certificati per compensare la riduzione delle quote gratuite di CO2 e aumento generale del prezzo dei certificati CO2 sulle quote in acquisto.
Il percorso di decarbonizzazione è essenziale quindi per la sostenibilità e la competitività a lungo termine dell’industria italiana, che altrimenti, secondo l’analisi, rischierebbe di chiudere o delocalizzare gli stabilimenti, sostenere tagli, costi e investimenti per far fronte alle perdite e perderebbe la possibilità di riprendere quote di mercato a seguito dell’introduzione del CBAM europeo, il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere che riguarda le importazioni di prodotti nelle industrie ad alta intensità di carbonio. Inoltre, la società di consulenza stima che l’inazione metterebbe a rischio già al 2030 anche circa 340mila posti di lavoro.
BCG sottolinea che l’Italia ha compiuto passi avanti, in particolare nel sostegno allo sviluppo del biometano per cui sono stati stanziati nuovi fondi per un totale di 1,99 miliardi di euro e il percorso al 2030 è stato tracciato dal Ministero dell’Ambiente con il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima.
Il documento identifica infine le leve su cui concentrare gli sforzi, ossia l’uso di biocombustibili, come il biometano e l’idrogeno, il CCUS, l’elettrificazione dei processi, l’efficienza energetica, l’economia circolare. In particolare un mix delle prime tre garantirebbe l’abbattimento dell’80% delle emissioni di CO2 al 2050.
L’analisi mostra come le leve di abbattimento varino per ciascun settore hard to abate preso in considerazione. Per esempio, mentre l’industria del cemento dovrebbe fare affidamento per lo più sui progetti CCUS, quella della chimica dovrebbe puntare sui green fuels, mentre il settore della carta potrebbe puntare maggiormente anche sull’efficienza energetica.
“Il lungo e complesso percorso di decarbonizzazione nel nostro Paese”, concludono gli esperti, “potrebbe essere facilitato da un ulteriore sostegno allo sviluppo di nuove tecnologie, in particolare i progetti di Ccus e la produzione di preridotto a Taranto, fondamentale per la decarbonizzazione del più importante e strategico sito siderurgico in Italia (l’ex Ilva) e un’accelerazione sulle tempistiche necessarie per l’ottenimento dei fondi per la decarbonizzazione e, a livello di regolamentazione, con l’introduzione di un sistema di incentivi per l’utilizzo di fonti energetiche e combustibili alternativi, che garantisca una riduzione dei costi operativi in particolare per il settore industriale.”