L’attuazione degli obiettivi di finanza sostenibile e di investimento green è graduale e comporta un cambiamento di mentalità. Si tratta di un’importante trasformazione, che richiede un’ulteriore educazione per aumentare la consapevolezza nelle proprie scelte. In questo quadro, combinare gli impegni normativi e volontari in materia ESG può essere un compito complesso per gli asset manager e gli asset owner – soprattutto per i più piccoli che sono dotati di risorse più ridotte – ma è fondamentale. Tuttavia, come sottolineato dai relatori della conferenza di Société Générale, ESG: scelta volontaria o vincolo normativo? nell’ambito del Salone del Risparmio 2024, gli asset servicer vengono in soccorso di asset manager e asset owner. Come? Attraverso servizi di consulenza specifici. Sempre più banche e Sgr si rivolgono agli asset servicers per ricercare competenze specialistiche e ridurre i costi di investimento, alla luce della crescente complessità del mercato, dove sono presenti prodotti e fondi via via più sofisticati.
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La survey di Société Générale: SFDR recepita da quasi tutti i player finanziari
Come è emerso da una survey di Société Générale che ha coinvolto asset manager e asset owner, il regolamento SFDR è ormai stato recepito e accettato dalla maggior parte dei player finanziari. “L’80% di quelli intervistati da Société Générale, infatti, ha fondi classificati come articolo 8 o 9”, spiega Fouad Massabni, Head of ESG Commercial Offer di Société Générale. Certo, se è vero che ormai gran parte degli asset manager mette in pratica strategie ESG, è vero anche che la tipologia di tali politiche dipende molto dalle dimensioni della società. “Per i più piccoli, infatti, attuare politiche di esclusione o integrare i criteri ESG può avere costi significativi”, aggiunge Massabni, “quindi cercano di trovare soluzioni per ridurre i costi, ad esempio evitando di ricorrere a consulenza esterna”. Secondo l’esperto, comunque, la vera sfida che gli asset manager devono affrontare è che gli esperti ESG sono ancora separati dagli altri team, che non hanno delle competenze in materia.
La tavola rotonda
Il diffuso adeguamento dei player finanziari alla normativa viene confermata anche dai relatori della tavola rotonda, provenienti da vari settori che rispecchiano ciò che succede nell’economia reale. Per Stefano Corbella, Sustainability Officer di Coima, ad esempio, la SFDR “ha irrobustito un approccio che però era già precostituito all’interno dell’azienda attiva nel settore immobiliare. Le strategie di sostenibilità, infatti, che tipicamente prevedono un approccio di lungo termine, ben si sposano con la visione delle società immobiliari”.
Una realtà che ha abbracciato la sostenibilità fin dalla sua nascita è Ambienta Sgr. La società, infatti, viene fondata nel 2007 con l’obiettivo di puntare su imprese con impatto ambientale positivo. Anche in questo caso, lo slancio normativo ha consolidato un approccio ESG preesistente. “In risposta alle crescenti aspettative della normativa, Ambienta ha lanciato il programma ESG in action, che opera come strumento di gestione del rischio e di creazione di valore condiviso a beneficio di tutti gli stakeholder, valutando e migliorando il profilo ESG delle aziende”, commenta Daniela Ioana Popa, ESG Manager di Ambienta. In effetti, la società tende a dotarsi di strumenti ESG interni, soprattutto per i temi più rilevanti e core, e solo in alcuni casi si rivolge a terzi, “ad esempio nel caso del calcolo specifico delle emissioni, per cui usiamo un software esterno”, spiega Popa.
A proposito di asset servicers, un esempio è dato dalla società Greenscope che, dalla raccolta dati alle azioni sostenibili, monitora gli aspetti ESG di aziende e investitori. Nel caso delle imprese, Greenscope le sostiene soprattutto in termini di consulenza per il reporting e per la misura dell’impatto ambientale. Per gli investitori, invece, è particolarmente utile nel sostenerli nella scelta di strategie ESG adeguate. Infine, per banche e assicurazioni, Greenscope si muove in termini di supporto nel reporting ESG e nell’adeguamento degli enti alle normative. “Ciò che però facciamo, in ciascuno di questi casi, è indicare un metodo iniziale per poi rendere autonoma la struttura”, sottolinea Grégoire Etienne, CRO e founder di Greenscope.
Un ruolo di accompagnamento, sebbene differente, è anche quello che ha Clessidra, un intermediario finanziario nato nel 2020 su iniziativa di Clessidra Sgr, parte del gruppo Italmobiliare. Il suo compito è quello di supportare le PMI italiane nella gestione e garanzia dei crediti commerciali. “Oggi ci troviamo di fronte a sfide globali che presentano determinate complessità che non possono essere affrontate singolarmente dagli attori del sistema economico. Serve collaborazione per realizzare la transizione”, afferma con convinzione Raffaella Bordogna, ESG e Sustainability Manager di Clessidra. Il compito che Clessidra si è prefissata nel supporto alle portfolio companies, sottolinea l’esperta, è quello di utilizzare il loro stesso linguaggio “per avvicinare finanza e industria”. In questo modo è anche più facile raggiungere gli obiettivi ESG comuni di investitore e impresa investita: “ad esempio, nel 2023 siamo riusciti a raggiungere la carbon neutrality per le emissioni Scope 1 e 2 delle aziende in portafoglio”, conclude Bordogna.
Sarà possibile giungere alla convergenza tra le varie definizioni di investimenti sostenibili applicati da tutti gli asset manager?
L’opinione dei relatori sulla possibilità di raggiungere una definizione standardizzata e rigida di investimenti sostenibili è univoca: se da un lato l’aspirazione della normativa con l’introduzione di rigidi sistemi di classificazione (seppure ancora confusi) è quella di creare maggiore trasparenza, dall’altro criteri troppo rigidi e inflessibili rischiano di alienare i player finanziari e di spingerli a commettere il “greenbleaching”. Ovvero, quel fenomeno contrario al greenwashing per cui i gestori di fondi, pur investendo in prodotti sostenibili, non lo comunicano, al fine di evitare rischi reputazionali e legali connessi. Il pericolo legato a una standardizzazione inflessibile sarebbe porre dei limiti alla diffusione di best practice e, di conseguenza, frenare l’innovazione nel settore.