Secondo la Global Climate Survey 2023 di Robeco, ad oggi circa il 48% degli investitori considera la biodiversità centrale o significativa per la propria politica di investimento. Una percentuale che è più che raddoppiata rispetto a due anni fa in cui era pari al 21%. Nonostante ciò, siamo ancora in una fase iniziale di integrazione di questo tipo di considerazioni e la mancanza di modelli predittivi sullo stato della natura, e quindi di dati per le analisi finanziarie, è l’ostacolo principale all’implementazione di strategie di investimento a favore della preservazione della biodiversità.
D’altro canto, però, “le problematiche ambientali e climatiche sono sotto gli occhi di tutti. Il pianeta sta bussando alla nostra porta chiedendoci di cambiare, non abbiamo scelta” afferma Lucian Peppelenbos, Climate & Biodiversity Strategist di Robeco secondo il quale il vero ruolo della finanza per proteggere la natura non è solo investire nei “green asset”, bensì quello di abilitare la transizione a un sistema economico “nature positive” ossia che non abbia impatti negativi sugli ecosistemi: “Questa è una grande sfida perché richiede di ripensare al sistema economico così come lo abbiamo progettato e di indirizzarlo sempre più verso un modello di economia circolare”.
La perdita di biodiversità è un fattore finora sottovalutato da aziende e investitori. Vede segni di cambiamento?
Si, vedo segni di cambiamento anche se lenti e non lineari. Le logiche di mercato non integrano ancora totalmente questo tipo di considerazioni, ma la direzione dei regolatori è chiara, soprattutto in Europa. A partire dal Green Deal, il piano d’azione sulla sostenibilità dell’UE – che include la SFDR (Sustainable Finance Disclosure Regulation), il regolamento che definisce cosa sono gli investimenti sostenibili e classifica i prodotti finanziari a seconda del loro grado di integrazione degli obiettivi ESG, e la tassonomia, che stabilisce quali sono le attività sostenibili – sta rimodellando il sistema e il modo in cui operiamo anche nel settore finanziario. Quindi, da questo punto di vista, anche la biodiversità, su cui l’istituzione europea sta legiferando, si pensi alla Nature Restoration Law o al regolamento europeo sui prodotti deforestation-free (EUDR), diventa un aspetto materiale per gli investitori legato alla compliance legislativa. Chi non rispetta i nuovi parametri ne paga le conseguenze dal punto di vista economico.
D’altro canto, le problematiche ambientali e climatiche sono sotto gli occhi di tutti. Il pianeta sta bussando alla nostra porta chiedendoci di cambiare, non abbiamo scelta.
Quali sono i maggiori rischi legati alla perdita della natura e ritiene che ci sia una corretta comprensione del loro impatto?
Ci sono due tipi di rischi legati alla perdita di natura: rischi fisici e rischi di transizione. I primi sono legati al collasso degli ecosistemi naturali e all’esaurimento di risorse. Tutte le attività produttive dipendono infatti dalle risorse naturali. Senza acqua, per esempio, il settore energetico, delle utility e quello agricolo non possono operare. E la siccità degli ultimi anni ha già avuto effetti tangibili su queste industrie che hanno dovuto riorganizzare o fermare le proprie attività. Si è visto anche nel nord Italia negli ultimi due anni. Questo ha un evidente costo non solo umano ma anche finanziario e un impatto sulla capacità di un’azienda di generare valore economico e sociale. Il pianeta ha dei limiti fisici con i quali dobbiamo e dovremo fare i conti se vogliamo garantire la sopravvivenza della specie umana.
La seconda tipologia di rischi è invece legata alla transizione e fa riferimento alla capacità di un’impresa o di un settore di essere conforme alle nuove normative. Il fermento legislativo in materia di sostenibilità, e quindi anche biodiversità, rappresenta un rischio per quelle aziende che non sono preparate e sono ben lontane dall’integrare nei propri piani industriali le considerazioni sugli impatti sulla natura. Sarà invece un’opportunità per chi già lo sta facendo e questo si tramuta in minori costi futuri e quindi in un vantaggio competitivo anche in termini economici.
Non penso che comprendiamo bene tali rischi, probabilmente perché sono concetti relativamente nuovi per un sistema economico che ha sempre esternalizzato i costi ambientali.
Sta aumentando il numero di fondi tematici focalizzati sulla biodiversità. Quale potrà essere il ruolo della finanza nella protezione della natura?
Da un lato quello di investire nei green asset, ossia quelle attività che offrono soluzioni alle problematiche ambientali e che al contempo presentano rendimenti positivi. Penso per esempio alle nuove tecnologie per l’agricoltura di precisione che permettono di ridurre l’uso dei pesticidi. Ma focalizzarsi solo su questo non risolverà la questione nel lungo periodo e, in ogni caso, riguarda un mercato limitato.
Il problema principale è che la maggior parte delle attività economiche e produttive haun impatto negativo sull’ambiente. Quindi, dal mio punto di vista, il vero ruolo della finanza per proteggere la natura è quello di abilitare la transizione a un sistema economico “nature positive” ossia che non abbia impatti negativi sugli ecosistemi. E questa è una grande sfida perché richiede di ripensare il sistema economico così come lo abbiamo progettato e di indirizzarlo sempre più verso un modello di economia circolare. Ciò porta con sé un alto grado di complessità perché esige di ridisegnare tutta la supply chain, dalla produzione al consumo, e non siamo pronti ancora.
Quali sono le difficoltà di implementare strategie di investimento a favore della preservazione della biodiversità?
La difficoltà principale deriva dall’inesistenza di modelli predittivi sugli ecosistemi e sulla perdita di biodiversità. Mentre per il cambiamento climatico i modelli ormai esistono e quindi possiamo definire piani di decarbonizzazione, stabilire target nel medio e lungo periodo e misurare gli impatti che questi hanno sul clima con un ragionevole grado di certezza, non possiamo fare lo stesso per la perdita di natura. Questo implica che non abbiamo dati da integrare nelle predizioni finanziarie e non abbiamo strumenti per valutare un’azienda dal punto di vista della biodiversità rispetto a un benchmark di settore.
Quali sono gli elementi da tenere in considerazione per comprendere l’impatto sulla natura di un’azienda?
Proprio a causa della criticità riguardante i modelli di predizione sugli ecosistemi e l’impossibilità di poter usare dati sulla biodiversity footprint a livello del singolo emittente, al momento è necessario spostare l’analisi su cosa sta causando la perdita di biodiversità e valutare in che modo un’azienda vi contribuisce. I driver principali della perdita di natura sono cinque, il cambiamento climatico, l’inquinamento, il cambiamento dell’uso del suolo (come la deforestazione o la cementificazione), il sovrasfruttamento delle risorse e le specie invasive.
Si può quindi osservare come una società impatta da questo punto di vista, come gestisce questi aspetti e quali effetti, anche economici, hanno le azioni messe in campo per mitigare gli impatti su questo fronte.
Ci può fare qualche esempio concreto di come riuscite ad analizzare l’impatto sulla biodiversità di aziende in diversi settori?
Certo. Per esempio, il settore del legno e della carta ha un elevato impatto sulla biodiversità legato per lo più al cambiamento di destinazione d’uso dei terreni, soprattutto in termini di deforestazione. Pertanto, quello che vogliamo vedere dalle aziende è una riduzione dell’uso di materie prime, una gestione forestale più sostenibile, un impegno in questa direzione e avere prove delle azioni attuate. Per misurare questi aspetti, osserviamo, per esempio, quanta carta usata è riciclata, qual è la quota di prodotti proveniente da foreste sostenibili certificate, l’implementazione di una strategia con azioni credibili per ridurre gli impatti sulla biodiversità e l’esistenza di partnership con organizzazioni affidabili. Invece, nel caso di un settore come quello chimico che impatta molto sulla biodiversità, oltre che in termini di land use change, soprattutto perché causa inquinamento delle acque, valutiamo se un’impresa usa sostanze alternative, se riduce il grado di tossicità dei prodotti, se ha un piano riguardante i rifiuti pericolosi generati dalla produzione e, anche in questo caso, l’impegno a ridurre i propri impatti e le prove delle azioni attuate. Misuriamo quindi la quota di fatturato derivante da prodotti contenenti materiali riciclati e/o materie prime rinnovabili certificate (positivo) e la percentuale di ricavi proveniente da prodotti contenenti sostanze molto inquinanti (negativo), la diminuzione dei rifiuti su un periodo di 3 anni, la strategia implementata e le partnership.