Come evitare che il sostegno e la comunicazione di una causa sociale si riduca ad una pratica di
marketing? Quali possono essere le ricadute dal punto di vista reputazionale di un attivismo
aziendale su temi sociali? Tante e positive se il sostegno alla buona causa è trasparente e
rispondente alla realtà. Del tutto controproducente se, invece, l’azione è di mera facciata e non c’è
reale condivisione dell’iniziativa promossa. Sembrerebbe facile fare la scelta più conveniente, ma
non sempre è così. Su questo delicato tema, che tocca una nuova sfumatura del greenwashing, ha
fatto un’analisi Rossella Sobrero, fondatrice e presidente di Koinètica, prima realtà italiana dedicata
alla Corporate Social Responsibility (CSR), nel suo saggio fresco di stampa Pericolo
Socialwashing, edito Egea.
Per l’esperta e organizzatrice di manifestazioni di rilievo nazionale come il Salone della CSR e
dell’innovazione sociale, giunto alla dodicesima edizione e in programma dal 9 all’11 ottobre
presso l’Università Bocconi di Milano, utilizzare i temi della sostenibilità e del sociale in maniera
strumentale espone l’azienda al rischio di essere accusata di socialwashing, un’altra voce del ricco
catalogo di washing (greenwashing, pinkwashing etc), che possono mettere a repentaglio
l’immagine e talvolta anche la stessa sopravvivenza di un’azienda.
Un ruolo importante in questo processo, per favorire una maggiore trasparenza, può essere giocato
anche dai portatori di interessi nei confronti dei quali le aziende mettono sempre più in atto strategie
di coinvolgimento. Gli stakeholders, infatti, (un variegato insieme che riunisce clienti, fornitori,
dipendenti, investitori, associazioni di categoria, professionisti e consulenti come commercialisti,
avvocati, esperti di comunicazione…) non sono solo i passivi destinatari delle politiche aziendali
sui temi sociali ma possono svolgere un ruolo di stimolo e di indirizzo per l’adozione e la corretta
comunicazione dei comportamenti aziendali. “Perché la lotta agli -washing è responsabilità di tutti
coloro che credono nella sostenibilità”, ha commentato Sobrero in quest’intervista a ESGnews.
È appena uscito il suo nuovo saggio “Pericolo Socialwashing”. Cosa si intende per socialwashing? Esiste una definizione univoca?
Definiamo socialwashing una pratica scorretta finalizzata a comunicare in modo strumentale iniziative a favore delle persone che non corrispondono a quanto realizzato realmente dall’organizzazione. Significa che, in buona o in mala fede, l’organizzazione non è stata sincera, per esempio, nel descrivere le attività per migliorare il benessere dei dipendenti, ha taciuto di aver scoperto che un proprio fornitore faceva lavorare persone in modo irregolare, ha raccontato come scelta responsabile l’impegno per la sicurezza sul lavoro quando gli interventi andavano fatti per obbligo di legge…
Pensa che sia un tema di cui le organizzazioni effettivamente si preoccupano o lo sottovalutano rispetto, per esempio, al greenwashing?
Quando si parla di ambiente sono stati fatti passi avanti e molte organizzazioni sono attente nel comunicare l’impegno per ridurre i propri impatti. Come sappiamo ci sono strumenti e indicatori in uso da anni che permettono di fornire, per esempio, dati concreti sulla decarbonizzazione, sulla riduzione dell’uso della risorsa acqua, sulle materie prime impiegate, sulla logistica… Purtroppo a volte, anche per incompetenza e scarsa professionalità, questi numeri non vengono forniti in modo corretto.
Per quanto riguarda il socialwashing molte aziende sono impreparate e preoccupate di prestare il fianco, anche involontariamente, a questo tipo di accusa.
Quali rischi corrono le imprese che utilizzano sostenibilità e temi sociali in modo strumentale?
I rischi per le imprese possono essere di due tipi: il primo è di essere escluse dal mercato anche a causa di leggi e regolamenti sempre più severi, il secondo di essere punite dai consumatori e accusate di praticare solo sostenibilità di facciata.
Quali azioni e strumenti possono mettere al riparo un’azienda dall’accusa di socialwashing?
Certamente ci sono strumenti che possono parzialmente mettere al riparo l’impresa da questo rischio ed evitarle di finire sotto la luce dei riflettori per un messaggio sbagliato. Dotarsi di policy, certificazioni, report di sostenibilità aiuta. Ma se vuole evitare l’accusa di washing l’organizzazione deve prima di tutto essere sincera, comunicare in modo trasparente le proprie strategie, raccontare non solo le azioni realizzate ma anche l’impatto generato. E comunicare solo l’essenziale: autenticità, semplicità, coerenza sono valori sempre più apprezzati.
Gli stakeholder possono avere un ruolo nello stimolare le aziende ad adottare comportamenti corretti e a raccontarli in modo trasparente? In che modo?
Il dialogo con gli stakeholder va gestito in modo nuovo e bisogna chiedersi non solo cosa può fare l’impresa per migliorare la relazione con loro ma anche cosa possono fare i portatori di interessi per evitare all’impresa l’accusa di washing. Un percorso non semplice che richiede la capacità di stimolare un flusso informativo inverso, ovvero dagli stakeholder verso l’organizzazione.
Per esempio, i collaboratori possono avere un ruolo importante: se l’azienda viene accusata di praticare azioni scorrette anche i collaboratori possono avere un danno a causa delle ricadute negative di una crisi reputazionale e di un’eventuale azione di boicottaggio. Quindi potrebbero essere tra i primi a chiedere all’impresa di comunicare in modo chiaro mantenendo una maggiore coerenza tra il dichiarato e l’agito. Diventerebbero così delle vere sentinelle che segnalano all’organizzazione eventuali rischi di washing.
Nel libro sono raccolte 20 interviste che offrono punti di vista differenti sul socialwashing e sugli sviluppi che questa pratica potrebbe avere in futuro. Qual è il quadro delle realtà italiane su questo fronte?
Ho voluto chiudere il libro con brevi interviste a persone che da anni si occupano di sostenibilità e che hanno fornito una visione realistica su cosa aspettarci in futuro: mi sembra di poter concludere che ci sarà una sempre maggior attenzione delle istituzioni e delle imprese ma crescerà anche la consapevolezza delle persone. E concludo il libro con un appello: chi crede nella sostenibilità – quella vera – ha il dovere di smascherare ogni pratica di washing. Un impegno che deve vedere in prima fila le imprese realmente responsabili. Per molte imprese diventerà obbligatorio nei prossimi anni rendicontare l’impegno sociale e ambientale, un cambiamento importante che spingerà queste organizzazioni a definire strategie di sostenibilità e a comunicarle in modo convincente. Trasparenza, coerenza, affidabilità saranno fondamentali anche per poter essere inseriti in catene di fornitura sostenibili e partecipare a gare pubbliche o private.