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Intervista

Giacobbe (ACBC): cambieremo il mondo innovando un prodotto alla volta

“Cambieremo il mondo un prodotto alla volta” promette ACBC, azienda italiana focalizzata nella consulenza green B2B, nella progettazione e nella produzione di prodotti responsabili, fondata nel 2018 da Gio Giacobbe, ex general manager di Trussardi e Peuterey, e ora amministratore delegato della nuova realtà. ACBC rivolge i suoi servizi a settori core per il made in Italy, come la moda, l’alimentare e l’hospitality, aiutando quelle aziende che vogliono avviare un percorso di produzione consapevole con la creazione di capsule collection e progetti speciali dedicati. Il supporto nel processo di transizione ESG offerto da ACBC è a 360 gradi: dall’analisi dello stato di partenza iniziale alla determinazione di obiettivi ESG fino alla trasformazione e innovazione dei prodotti e alla mappatura e adeguamento di tutta la catena di fornitura.

Giacobbe è convinto che l’azione concreta di ACBC porti a risultati tangibili e abilitatori di un cambiamento reale che possa contribuire a trasformare fino all’1% del mercato. Attualmente ACBC vanta partnership con oltre 70 brand tra i più importanti del settore della moda – Armani, MaxMara, Missoni, Chloè, Monnalisa, MSGM, Ganni, solo per citarne alcuni. Ad oggi è a un quinto della sua aspirazione di cambiamento, ma in cinque anni ha trasformato oltre 2 milioni di prodotti che sono distribuiti sul mercato a marchio ACBC vantando le migliori prestazioni in termini di sostenibilità.

“C’è un’esigenza molto forte in campo ESG e siamo solo all’inizio di una trasformazione che coinvolgerà tutte le aziende per i prossimi vent’anni” dichiara il ceo di ACBC in questa intervista a ESG news a margine del convegno Integrare la sostenibilità nella strategia e nel business aziendale di Intesa Sanpaolo. E nel contesto climatico e sociale attuale non c’è tempo per la paura del cambiamento: “bisogna evolvere, innovando” aggiunge Giacobbe.

Com’è nata ACBC e cosa significa?

ACBC è l’acronimo di “Anything Can Be Changed”. Ho fondato l’azienda nel 2018 dopo un’importante esperienza in Asia e inizialmente il mio intento era quello di creare un brand di scarpe con valori distintivi, tra cui la sostenibilità, e non quello di spingere o accompagnare le imprese a intraprendere un percorso ESG.

Dopo il Covid però le cose sono cambiate. La pandemia è stata un acceleratore di interesse sui temi della sostenibilità e ha spostato molto l’attenzione verso tali tematiche. Mi sono reso conto che il sentiment d’urgenza non premeva solo me e soprattutto che le richieste sul fronte ESG riguardavano più il B2B che il B2C. Quindi, grazie a Intesa Sanpaolo e all’aumento del capitale, abbiamo investito circa 10 milioni di euro in sostenibilità, in persone e competenze ESG e abbiamo deciso di condividere questo know how con il mercato.

Oggi collaboriamo con 70 brand tra i più importanti del settore della moda e vogliamo cambiare l’1% del mercato. C’è un’esigenza molto forte in campo di sostenibilità e siamo solo all’inizio di una trasformazione che coinvolgerà tutte le aziende per i prossimi vent’anni: è un’onda di innovazione proprio com’è stata la digitalizzazione nei primi anni Duemila.

Quali servizi offre ACBC alle aziende?

ACBC fa “applied sustainability”, quindi applichiamo la sostenibilità e i suoi criteri ai prodotti delle aziende. Il modello di business di ACBC è orientato sia al mercato B2B sia al mondo B2C e si rivolge a tutti i marchi delle industrie dei settori moda, food e hospitality che vogliono avviare un percorso di produzione consapevole con la creazione di capsule collection e progetti speciali dedicati.

Nel concreto ciò si traduce nell’attribuzione di un rating all’impresa cliente, che viene validato da una parte terza, e nel supporto al percorso di miglioramento ed evoluzione degli obiettivi ESG prefissati. Questo significa, in una seconda fase, lavorare sulla trasformazione e l’innovazione dei prodotti – seguendo principi di circolarità, biodegradabilità, massimizzazione dei materiali sostenibili e minimizzazione della CO2 – e sull’analisi di tracciabilità, mappatura e valutazione della catena di fornitura – su aspetti quali, per esempio, l’efficienza energetica, il consumo idrico e la compliance agli standard ambientali e sociali dell’industria e relative certificazioni.

Nel tempo abbiamo costruito partnership con l’Università di Cambridge per l’analisi della supply chain e con il Politecnico di Milano per quanto riguarda lo studio di materiali innovativi. Infatti, se l’analisi iniziale che offriamo è utile per ottenere i dati da inserire nel bilancio di sostenibilità o nella rendicontazione integrata, non bisogna dimenticare che questi sono aspetti burocratici. Per poter, invece, realmente migliorare la condizione di partenza e progredire sul fronte ESG è necessario agire sul prodotto e sulla supply chain, i quali sono gli unici due elementi concreti per ridurre gli impatti, in primis quelli relativi alle emissioni di CO2.

Un tale approccio correttivo è quello richiesto dalle istituzioni e dalle regolamentazioni europee ed è, al contempo, anche quello che permette di acquisire un vantaggio competitivo ai nostri clienti e alle aziende della loro filiera.

Quali sono gli elementi chiave su cui le aziende del settore della moda devono agire?

Il tema della sostenibilità per le aziende di moda significa in primo luogo “brand reputation”. I marchi si stanno muovendo velocemente per riuscire ad essere compliance ai criteri ESG perché le ripercussioni da questo punto di vista possono essere considerevoli. Oggi se un cliente acquista una borsa da migliaia di euro, ha fiducia che l’azienda sappia da dove proviene la pelle o se sono rispettate e osservate le norme sui diritti umani lungo la filiera.

In particolare, i due elementi chiave su cui le imprese del settore devono agire sono supply chain e materiali.

Molte aziende hanno bussato alla nostra porta proprio perché necessitavano di un ausilio per allineare tutta la catena del valore ai criteri ESG, come richiesto dalla nuova legislazione. È un cambiamento di prospettiva rilevante se si considera che il modello di business della moda ha sempre visto una netta separazione tra le aziende che disegnavano e quelle che producevano. Oggi questa distinzione non è più possibile parlando di responsabilità ambientale e sociale.

Gio Giacobbe, Ceo di ACBC

Il nostro lavoro con gli oltre 70 brand si estende quindi a tutta la supply chain e la scelta delle big maison di fare le cose in maniera diversa e integrare la sostenibilità – per obbligo normativo o volontà – impatta effettivamente tutta la sua filiera, spesso formata da tantissime aziende italiane che producono per i grandi marchi della moda.

Ad oggi questo dialogo si traduce in richieste che vanno dalla stesura del bilancio di sostenibilità all’effettiva riduzione degli impatti ambientali e sociali legati alla manifattura di un prodotto, quindi impegno a diminuire le emissioni di CO2 e scegliere in maniera coscienziosa le materie prime.

Per il momento, nella maggior parte dei casi, tale processo di adeguamento ha spinto i fornitori a investire nell’efficientamento e nel rinnovamento dei macchinari usati, ma credo che con il tempo assisteremo a una maggiore proattività da parte dei suppliers nel proporre nuovi prodotti, tecnologia innovativa e materiali all’avanguardia in una logica di continuo miglioramento sul fronte della sostenibilità che possa tramutarsi in un vantaggio competitivo per entrambe le parti.

Quale tipo di vantaggio competitivo intende? Può fare degli esempi?

Lo stimolo a proporre nuove soluzioni porta innovazione che permette di acquisire un valor aggiunto nel poter essere competitivi senza combattere semplicemente sul prezzo, bensì su una qualità distintiva. Per esempio, Stella McCartney pur avendo escluso l’utilizzo della pelle nei suoi prodotti si presenta sul mercato con prezzi assolutamente allineati ai competitor che invece ancora la usano, riuscendo al contempo a vantare costi di produzione inferiori.

Sul fronte dei materiali c’è anche un discorso di anticipazione dei tempi legislativi. Si pensi al Pvc, bannato dalla comunità europea. Tutti i brand che ne facevano uso (ossia la stragrande maggioranza) dovranno sostituirlo. Chi con lungimiranza ne aveva già ridotto o eliminato l’utilizzo, seguendo logiche di sostenibilità, ne trarrà un vantaggio.

Di fatto oggi chi usa e dipende dal Pvc dovrà affrontare un problema di business continuity. Quindi non fare un passo strategico in sostenibilità può significare anche rischiare davvero, in alcuni casi, di essere fuori dal settore.

In Italia, oltre ai grandi brand, ci sono anche piccole e medie aziende di fornitori. Riescono a stare al passo con le nuove richieste?

Le aziende più giovani riescono a stare al passo, mentre quelle tradizionali faticano a comprendere l’importanza della sostenibilità e tendono ad essere più conservative. Credo che l’elemento critico di differenziazione sia la capacità di resilienza delle persone. Il cambiamento fa sempre paura, ma le nuove generazioni lo temono di meno, sono più abituate.

E per il settore del food quali sono le priorità per trasformare la propria catena di fornitura?

Nel settore del food le priorità per trasformare la supply chain riguardano la tracciabilità della filiera e gli ingredienti dei prodotti alimentari.

Per esempio, abbiamo supportato Alpro, brand di Danone attivo nel settore dell’alimentazione vegetale, a calcolare la propria impronta carbonica e abbiamo comparato la carbon footprint di un “alproccino” (un cappuccio con latte di soya Alpro) con quella di un cappuccino con latte tradizionale di mucca. Il valore stimato per il primo è stato pari a 0,61 kgCO2eq, mentre per il secondo 0,94 kgCO2eq, quindi un impatto del primo, in termini di emissioni di CO2, minore di circa il 35%. In questo caso la differenza l’ha fatta proprio la divergenza tra la carbon footprint della soya (12% del totale per kgCO2eq) e quella del latte (44% del totale per kgCO2eq) dal momento che tutte le altre variabili (produzione, uso e trasporto del caffè e energia consumata per l’utilizzo finale) erano uguali.

Quale consiglio darebbe a chi non ha ancora iniziato un percorso di sostenibilità?

La mia esperienza da imprenditore mi porta a fare due riflessioni principali. Il primo è che non bisogna aver paura del cambiamento bensì essere propensi ad evolvere, sempre. Il secondo è che l’innovazione traina il cambiamento.