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Intervista

BonelliErede: la partita sul “diritto al clima” è solo all’inizio

Dopo le pronunce emesse in numerosi Paesi, anche lo Stato italiano è stato chiamato dai cittadini a rendere conto, in via giudiziale, della propria azione di contrasto al cambiamento climatico e delle misure adottate, ritenute insufficienti e non abbastanza ambiziose. In particolare, più di 200 ricorrenti (162 adulti, 17 minori rappresentati in giudizio dai genitori e 24 associazioni impegnate nella giustizia ambientale e nella difesa dei diritti umani) hanno deciso di intraprendere un’azione legale mai intentata prima in Italia accusando lo stato di inadempienza climatica, ossia di un impegno nella riduzione delle emissioni di gas serra non in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e non sufficienti a tutelare i diritti umani fondamentali dell’individuo. Nell’occhio del mirino le politiche del PNIEC (Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima) che, secondo quanto stabilito nel documento, dovrebbero portare, entro il 2030, a una riduzione delle emissioni del 36% rispetto ai livelli del 1990.

“Questa riduzione, sebbene in linea con gli standard europei, è stata ritenuta dagli attori incompatibile con la “quota equa” di riduzione delle emissioni che l’Italia è tenuta a implementare per concorrere all’obiettivo di contenere l’innalzamento delle temperature entro 1,5°C” raccontano Lazare Vittone, partner, e Martina Ferrero, Managing Associate, della practice Litigation & Dispute Resolution di BonelliErede in questa intervista a ESGnews.

Tra i diritti non tutelati e citati dai ricorrenti, vi sono il diritto alla vita, al cibo, all’acqua, alla salute, all’alimentazione, a un ambiente salubre, a un’abitazione adeguata e alla prioprietà, oltre che il diritto a un clima stabile e sicuro “dal momento che le condizioni climatiche influenzano la tutela degli altri diritti” e quindi che “il riconoscimento di un diritto specifico alla stabilità climatica fornisce ulteriore livello di protezione a tutti i diritti condizionati dal clima”. L’azione legale è stata promossa nell’ambito della campagna di sensibilizzazione definita Giudizio Universale e si è inserita nel solco dei contenziosi climatici portati avanti in diversi paesi del mondo e aumentati negli ultimi anni.

“Con la sentenza del 6 marzo 2024 il Tribunale di Roma ha dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione, ossia ha ritenuto di non potersi pronunciare tout court su tali domande” spiegano i due avvocati di BonelliErede, che sono però fiduciosi: “il Tribunale afferma a più riprese che la situazione climatica costituisce una grave emergenza planetaria e rileva che la gravità e l’urgenza di intervenire per contrastare il cambiamento climatico sono state riconosciute anche dallo Stato italiano: si tratta di una circostanza significativa, posto che nel dibattito globale non sono mancate voci rivolte a minimizzare il tema. Nei Tribunali italiani, quindi, la partita sul diritto al clima potrebbe essere solo all’inizio

Cos’è e cosa implica il Climate Change Litigation?

In linea generale, possiamo dire che per “climate change litigation”, o contenzioso climatico, si intendono i casi, portati innanzi alle autorità giurisdizionali (nazionali e internazionali), in cui si controverte su questioni di diritto o di fatto relative al cambiamento climatico di origine antropica. Il contenzioso climatico sta registrando da anni un costante incremento: secondo il censimento effettuato nel 2023 dalle Nazioni Unite nel Global Climate Litigation Report, al 31 maggio 2023 si sono registrati 2341 casi in ben 51 Paesi, contro gli 884 casi in 64 Paesi registrati nel 2017. Ad aumentare, quindi, non è soltanto il numero dei casi, ma anche il numero di Paesi nei quali i casi vengono portati all’attenzione dei giudici.

Azioni di questo tipo vengono promosse da singoli individui (o classi di individui), organizzazioni non governative, enti locali. I convenuti principali sono gli Stati (in circa il 70% dei casi) e le imprese.

Quali sono gli obiettivi di un contenzioso climatico?

Gli obiettivi perseguiti tramite queste azioni sono diversi. Quando è lo Stato a essere chiamato in giudizio, gli attori – quindi individui, classi di individui, organizzazioni non governative – lamentano che il cambiamento climatico comporti una violazione di diritti fondamentali della persona stabiliti da trattati internazionali o dalla costituzione del Paese in questione. Si fa riferimento, dunque, al diritto alla vita, alla salute, al cibo, all’acqua, alla libertà, alla vita familiare, sostenendo (o meglio accusando) che lo Stato non abbia fatto quanto dovuto, o quanto in suo potere, nel predisporre misure adeguate a tutelarlo.

Quando è un’impresa, spesso operante nei settori oil & gas oppure energy, a essere chiamata in giudizio, gli attori (che in questo caso possono includere anche gli enti locali) lamentano che l’azienda abbia contribuito, tramite un’attività di produzione di beni o servizi non sufficientemente sostenibile, al surriscaldamento globale. Di conseguenza, l’impresa viene chiamata a ridurre le proprie emissioni di gas serra o a rispondere delle conseguenze dannose che gli eventi meteorologici estremi (scioglimento di ghiacciai, alluvioni, inondazioni, ondate di calore, eccetera) hanno comportato per gli attori o per determinate comunità.

Lazare Vittone, partner Bonelli Erede

Le istanze sul greenwashing sono un esempio di contenzioso climatico?

Si. Un filone, particolarmente sviluppato, di contenzioso climatico che riguarda le imprese è proprio rappresentato dai giudizi promossi per lamentare la diffusione di informazioni fuorvianti su tematiche “ambientali” allo scopo di accattivarsi le simpatie dei consumatori, ovverosia il cosiddetto “greenwashing”. Il caso classico è quello dell’impresa che viene sanzionata dall’autorità nazionale in materia di concorrenza per essersi vantata, nei propri messaggi pubblicitari, di produrre beni o servizi ecosostenibili, perché interamente realizzati con materiali riciclati, ricorrendo a energia estratta da fonti rinnovabili, senza l’utilizzo di OGM, eccetera.

A fronte dell’insuccesso delle iniziative sinora assunte dalla comunità internazionale, il contenzioso climatico offre alla società civile, che per questo vi sta facendo crescente ricorso, una possibilità concreta di addebitare ai governi e al settore privato la responsabilità per aver fornito risposte inadeguate alla crisi climatica. Le azioni in questione stanno, quindi, assumendo un ruolo centrale nel costringere i governi e le imprese a perseguire obiettivi più ambiziosi di riduzione delle emissioni di gas serra. La sentenza del Tribunale di Roma del 6 marzo 2024 si pone proprio in questo solco: si tratta della prima volta in cui una Corte italiana è stata chiamata a pronunciarsi sull’affermata inazione dello Stato nel fronteggiare gli effetti del cambiamento climatico. In realtà è stata una “non pronuncia”, avendo il Tribunale di Roma ritenuto di non avere giurisdizione in proposito. Ciononostante, essa potrebbe aver comunque tracciato un solco: vedremo in che termini.

Cosa ha stabilito la sentenza del 6 marzo 2024?

La sentenza del 6 marzo 2024 è una pronuncia in “rito”: ciò significa che il Tribunale di Roma non è entrato nel merito delle domande che gli sono state rivolte, ma ha dichiarato il proprio “difetto assoluto di giurisdizione”, ossia ha ritenuto di non potersi pronunciare tout court su tali domande.

Nel così definito Giudizio Universale gli attori hanno citato in giudizio lo Stato italiano sostenendo che le misure da questo adottate allo scopo di contrastare il cambiamento climatico e ridurre le emissioni di gas serra non sarebbero sufficientemente ambiziose. Le politiche pianificate dal governo italiano, come indicate nel Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (“PNIEC”), si propongono di pervenire, entro il 2030, a una riduzione delle emissioni del 36% rispetto ai livelli del 1990. Questa riduzione, sebbene in linea con gli standard europei, è stata ritenuta dagli attori incompatibile con la “quota equa” di riduzione delle emissioni che l’Italia è tenuta a implementare per concorrere all’obiettivo – stabilito dall’Accordo di Parigi sul clima – di contenere l’innalzamento delle temperature entro 1,5°C.

L’inazione dello Stato impatterebbe su numerosi diritti fondamentali e inalienabili dell’individuo, tra cui il diritto alla vita, al cibo, all’acqua, alla salute, a un ambiente salubre, a un’abitazione adeguata e alla proprietà, all’autodeterminazione nell’usufruire delle risorse naturali oltre che a un clima stabile e sicuro.

Il Tribunale di Roma ha evidenziato come, secondo la prospettazione degli attori, la responsabilità dello Stato deriverebbe non già dall’illegittima espressione di un potere pubblico, ma dalla violazione di un’obbligazione civile extracontrattuale dello Stato nei confronti dei singoli cittadini e avente per oggetto la riduzione delle emissioni. Tale obbligazione, secondo gli attori, deriverebbe dall’adesione dello Stato italiano alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992, all’Accordo di Parigi e ai metodi scientifici utilizzati dall’Intergovernmental Panel on Climate Change.

Ricostruita così la domanda, da un lato, il tribunale ha ritenuto che le decisioni relative a modalità e tempi di gestione del cambiamento climatico rientrino nella sfera di attribuzione degli organi politici e non siano sanzionabili nell’ambito di un giudizio ordinario, pena la violazione del principio della separazione dei poteri, cardine dell’ordinamento italiano (e di tutti gli ordinamenti liberali). Dall’altro lato, una responsabilità dello Stato-legislatore potrebbe sussistere solo nel caso in cui allo Stato venisse addebitata una violazione degli obiettivi imposti dall’Unione Europea, ma non è questo il caso: nella specie gli attori hanno preteso che lo Stato perseguisse obiettivi di riduzione delle emissioni più ambiziosi di quelli assunti dallo Stato in ambito eurounitario.

Le domande volte a modificare il PNIEC, invece, sono state ritenute di competenza del giudice amministrativo, in quanto volte a censurare l’adeguatezza, coerenza e ragionevolezza di un provvedimento amministrativo rispetto al regolamento europeo (UE 2018/1999) che ne disciplina la formazione.

Martina Ferrero, Managing Associate, della practice Litigation & Dispute Resolution di BonelliErede

Nulla di fatto, dunque? Dobbiamo leggere la sentenza come una battuta di arresto per l’associazionismo ambientale, rispetto ai successi che tali associazioni hanno ottenuto in altre giurisdizioni?

Non è detto. Anzitutto, occorre attendere l’esito dell’eventuale giudizio di appello.

Inoltre, in ogni caso, la pronuncia offre sin d’ora spunti interessanti. In primo luogo, infatti il Tribunale afferma a più riprese che la situazione climatica costituisce una grave emergenza planetaria e rileva che la gravità e l’urgenza di intervenire per contrastare il cambiamento climatico sono state riconosciute anche dallo Stato italiano: si tratta di una circostanza significativa, posto che nel dibattito globale non sono mancate voci rivolte a minimizzare il tema. In secondo luogo, la sentenza non esclude la possibilità di ottenere tutela in giudizio nei casi in cui venga lamentata una violazione, da parte dello Stato, degli obblighi assunti nell’ambito dell’Unione Europea (cosa che non è accaduta nel caso di specie). In terzo luogo, la sentenza afferma che il giudice amministrativo può sindacare il contenuto del PNIEC e, in particolare, l’adeguatezza, coerenza e ragionevolezza di tale provvedimento amministrativo rispetto al regolamento europeo (UE 2018/1999) che ne disciplina la formazione.

Nei Tribunali italiani, quindi, la partita sul “diritto al clima” potrebbe essere solo all’inizio.

Esistono, ed eventualmente quali sono, i precedenti in altri Paesi dell’Unione Europea?

Sì, in ambito eurounitario sono già numerose le corti che in diverse giurisdizioni si sono pronunciate in materia ritenendo, al contrario del Tribunale di Roma, di poter censurare l’adeguatezza o meno delle iniziative adottate dai singoli Stati per fronteggiare gli effetti del cambiamento climatico. Il caso più famoso è senz’altro quello denominato “Urgenda”, nel quale l’omonima organizzazione non governativa olandese e numerosi cittadini hanno agito in giudizio nel 2015 chiedendo la condanna dell’Olanda a porre in essere azioni per la riduzione delle emissioni (in particolare per ottenere entro la fine del 2020 una riduzione del 25% rispetto al livello di emissioni del 1990) più incisive rispetto a quanto previsto nella legislazione vigente, ritenuta non sufficientemente ambiziosa (in quanto prevedeva una riduzione pari al 17%). Nel 2018 la Corte distrettuale ha accolto la domanda, ritenendo che gli obblighi assunti dallo Stato olandese non fossero sufficienti a garantire il rispetto, da parte dello Stato, degli artt. 2 (diritto alla vita) e 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. La condanna, dopo aver resistito al giudizio di appello, è stata confermata dalla Corte Suprema olandese nel 2020. Altre pronunce similari si sono registrate in Belgio, Germania, Irlanda e Francia.