Dal 21 ottobre al 1° novembre la Colombia ospiterà la sedicesima Conferenza delle parti sulla biodiversità (Cop16). L’obiettivo? Trasformare gli impegni dell’Accordo di Kunming-Montreal in azioni concrete.
Non possiamo fare a meno della biodiversità, cioè la varietà di organismi animali e vegetali che popolano il nostro Pianeta. Non possiamo farne a meno perché è alla base del nostro sistema alimentare, della nostra economia e della nostra resilienza ai cambiamenti climatici. – Più della metà del PIL mondiale – pari a 41.700 miliardi di dollari – dipende da ecosistemi sani. Eppure, la biodiversità sta andando incontro a una crisi senza precedenti, ed è una crisi innescata dal consumo sconsiderato delle sue risorse da parte degli esseri umani. Ecco perché ci sono grandi aspettative nei confronti della Conferenza delle parti della Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica, meglio nota come Cop16 sulla biodiversità, in programma dal 21 ottobre al 1° novembre a Cali, in Colombia.
Indice
Cos’è e a cosa serve una Conferenza delle parti sulla biodiversità
Oggi è comune sentir parlare di sviluppo sostenibile e di tutela del Pianeta, ma questi concetti sono stati teorizzati poco più di trent’anni fa. Per la precisione, era il 1992 quando i leader mondiali si riunirono al Summit della Terra di Rio de Janeiro (noto anche come Conferenza di Rio, proprio dal nome della città ospitante), per concordare una strategia globale per lo sviluppo sostenibile.
Fra i trattati adottati in quell’occasione c’è anche la Convenzione sulla diversità biologica, un testo giuridicamente vincolante che si pone tre obiettivi: tutelare la biodiversità, farne un uso sostenibile e ripartire in modo giusto ed equo i benefici che ne derivano. Aperta alla firma il 5 giugno 1992, la Convenzione sulla diversità biologica entrò in vigore il 29 dicembre dell’anno successivo e oggi conta 193 Stati membri, detti “parti”. Il suo organo di governo è la Conferenza delle parti (Cop). Si tiene ogni due anni ed è un’occasione durante la quale i governi dei Paesi membri si riuniscono per esaminare i progressi fatti, definire le priorità e delineare piani di lavoro per il futuro.
La perdita di biodiversità nel mondo
Sono i dati a dimostrare quanto sia necessario e urgente occuparsi della biodiversità. Una delle fonti più autorevoli è il Living Planet Report, il rapporto biennale con cui il WWF analizza i trend di declino di decine di migliaia di popolazioni di vertebrati (mammiferi, uccelli, pesci, rettili e anfibi) in tutto il mondo. L’ultima edizione, pubblicata nel 2022, analizza quasi 32mila popolazioni di oltre 5mila specie selvatiche di vertebrati terrestri, marini e d’acqua dolce: il calo medio dell’abbondanza di tali popolazioni è del 69% tra il 1970 e il 2018. La situazione più grave è in America Latina e nei Caraibi (meno 94%) e le specie che mostrano il declino più marcato sono quelle d’acqua dolce (meno 83%). Questi dati, spiegano i ricercatori del WWF, sono indicatori d’allerta precoce dello stato di salute di un ecosistema. Oggi un milione di piante e animali è a rischio di estinzione e l’1-2,5% delle specie di uccelli, mammiferi, anfibi, rettili e pesci si è già estinto. Una ricerca redatta dall’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) sostiene che le attività umane mettano in pericolo il 79% delle specie minacciate.
L’esistenza stessa di due Cop, una dedicata al clima e una dedicata alla biodiversità, porta a pensare che si tratti di due problemi distinti. In realtà, sono due facce della stessa medaglia. I cambiamenti climatici sono collegati alla perdita di intere popolazioni di oltre mille specie animali e vegetali, un bilancio che non potrà che peggiorare. Se la temperatura media globale aumenterà di 1,5 gradi, per esempio, perderemo il 70-90% dei coralli che vivono in acque calde; se – come appare molto più probabile – arriverà a 2 gradi, la perdita sarà di oltre il 99%. Viceversa, la biodiversità rende gli ecosistemi più resilienti, cioè permette loro di ritornare in salute più rapidamente dopo avere subito l’impatto di un evento meteo estremo.
Il valore economico della biodiversità
Tutelare la biodiversità non è soltanto un gesto di responsabilità nei confronti del Pianeta: è anche una necessità da cui dipende la sopravvivenza del nostro sistema economico. Lo dimostrano numerosi studi.
Uno dei più autorevoli, coordinato dal Green Finance Institute, si focalizza sul Regno Unito e arriva a calcolare che il degrado dell’ambiente possa far crollare del 12% il suo prodotto interno lordo (PIL). Un impatto simile a quello della pandemia di Covid-19 (-11% del PIL britannico nel 2020) e molto più consistente rispetto a quello della crisi finanziaria del 2008; all’epoca, infatti, il PIL è calato “solo” del 5%. Alcuni settori sono più vulnerabili di altri: primo tra tutti quello agricolo, le cui rese sono legate a doppio filo alla disponibilità di acqua, all’inquinamento, al clima e alla qualità del suolo. Ma indirettamente anche il settore bancario è coinvolto: se le imprese sono in difficoltà, infatti, anche il loro rischio di credito sale. Sempre secondo lo studio britannico, la potenziale perdita di valore dei portafogli bancari può aggirarsi anche sul 4-5%.
La natura è così preziosa economicamente perché, ogni giorno, ci offre i cosiddetti servizi ecosistemici: cibo, acqua, materie prime, regolazione del clima, impollinazione, valore estetico e paesaggistico e non solo. Anche se li riceviamo gratuitamente, hanno un valore monetario immenso. Tant’è che, secondo alcune stime condotte su scala globale, il cambiamento nell’uso del suolo (dovuto per esempio alla deforestazione o alla cementificazione) ha comportato una perdita di servizi ecosistemici per un valore compreso tra i 3.500 e i 18.500 miliardi di euro all’anno tra il 1997 e il 2011. A cui bisogna aggiungere gli altri 5.500-10.500 miliardi di euro all’anno persi per via del degrado del suolo. Si stima che più della metà del prodotto interno lordo globale dipenda dalla natura: stiamo parlando di circa 40mila miliardi di euro. Solo nell’Unione europea, tre dei settori più legati alle risorse del pianeta – cioè agricoltura, cibo e bevande ed edilizia – hanno un giro d’affari che supera i 7mila miliardi di euro.
Il bilancio della Cop15: l’Accordo di Kunming-Montreal
Alla luce di questo scenario, è stato salutato con speranza ed entusiasmo l’Accordo di Kunming-Montreal, firmato al termine della precedente Conferenza delle parti, la Cop15. È una sorta di Accordo di Parigi della biodiversità che prevede di proteggere il 30% della biodiversità terrestre e marina entro il 2030, nel rispetto dei diritti delle popolazioni indigene e delle comunità locali. Più nel dettaglio, la tabella di marcia si articola su vari obiettivi, tra cui:
- arrestare l’estinzione delle specie conosciute e ridurre di dieci volte il tasso di estinzione di tutte le specie (anche sconosciute) entro il 2050;
- incrementare gli stanziamenti di risorse finanziarie per la biodiversità dai Paesi industrializzati a quelli più poveri, per un totale di 20 miliardi di dollari l’anno entro il 2025 e 30 miliardi di dollari l’anno entro il 2030;
- ridurre almeno del 50% i rischi legati ai pesticidi e i nutrienti dispersi nell’ambiente, sempre entro il 2030;
- sempre entro la fine del decennio, far sì che i rischi e gli impatti negativi dell’inquinamento scendano fino a livelli non dannosi per gli ecosistemi e la biodiversità;
- ridurre l’impronta globale dei consumi entro il 2030;
- far calare almeno del 50% il tasso di introduzione e di insediamento delle specie aliene invasive entro la fine del decennio;
- garantire l’uso e il commercio sicuro, legale e sostenibile delle specie selvatiche entro il 2030;
- rendere più verdi gli spazi urbani;
- adottare soluzioni basate sulla natura contro i cambiamenti climatici;
- individuare entro il 2025 ed eliminare entro il 2030 almeno 500 miliardi di dollari all’anno di sussidi dannosi per la biodiversità.
È una soluzione di compromesso, che ha imposto di fare delle rinunce e che in ogni caso andrà implementata attraverso azioni concrete a livello nazionale.
Verso la Cop16 di Cali
Trasformare le dichiarazioni d’intenti dell’Accordo di Kunming-Montreal in piani d’azione concreti e tangibili da parte delle singole nazioni è l’obiettivo principe della sedicesima Conferenza delle parti sulla biodiversità (Cop16) si tiene a Cali, in Colombia, dal 21 ottobre al 1° novembre 2024, dove si riuniranno i 190 paesi partecipanti. È il primo di vari appuntamenti che pongono l’America latina al centro dell’agenda internazionale: a novembre è in programma infatti il G20 in Brasile, Paese che l’anno successivo ospiterà anche la Cop30 sul clima.
Il Paese ospitante
La Colombia non è un Paese qualsiasi. I suoi 314 tipi di ecosistemi ospitano quasi il 10% della biodiversità del Pianeta; è prima al mondo per varietà di specie di uccelli e orchidee e seconda per varietà di specie di piante, farfalle, pesci d’acqua dolce e anfibi. Al tempo stesso, però, gran parte di questo patrimonio naturale è stata sacrificata a favore soprattutto dell’agricoltura. È vero infatti che tuttora il 53% della terraferma colombiana è coperto da foreste naturali, ma è vero anche che, secondo le stime, il 95% delle foreste secche oggi ha un’estensione ridotta rispetto a quella originale. Attualmente le foreste secche, nel loro insieme, occupano un’area che è appena il 2% rispetto a quella originaria. Tra gli ecosistemi più delicati e preziosi ci sono le brughiere, la cui estensione è circa il 2% di quella complessiva del Paese.
Oltre all’agribusiness, l’altra grande minaccia è rappresentata dai disordini interni, in un Paese che per mezzo secolo è stato teatro di rappresaglie tra bande armate, legate anche al traffico di droga. Un Paese che è spezzato in due da profonde disuguaglianze socio-economiche e in cui si vengono a creare tensioni anche con i popoli indigeni, custodi di tradizioni secolari.
La Colombia è quindi un simbolo di quanto può accadere all’intero pianeta. Tutelare la sua biodiversità significa innanzitutto dare un futuro a specie animali e vegetali che in alcuni casi vivono esclusivamente in quel territorio, ma non solo: significa anche preservare il cibo, l’acqua, il legname, le piante medicinali e altre risorse preziose per la popolazione; per non parlare di tutti i servizi ecosistemici che la natura offre.
Le ambizioni e le sfide
Susana Muhamad, ministra dell’Ambiente della Colombia che ha l’incarico di presiedere la Cop16, promette di focalizzare le discussioni su azioni pratiche e tangibili. Per esempio la tutela dell’Amazzonia, o i finanziamenti internazionali per i cosiddetti Paesi megadiversi, cioè quelli che custodiscono la maggior parte delle specie viventi. In altre parole, il successo del summit si giocherà sulla capacità di implementare le azioni promesse alla precedente Cop sulla biodiversità.
Una grande sfida sarà quella di definire piani e trovare strumenti per finanziare le imponenti iniziative necessarie a dare concreto sviluppo agli obiettivi di protezione della biodiversità. Nell’Unione europea, uno sprone in questo senso arriva dal nuovo framework di rendicontazione introdotto dalla CSRD, la direttiva sul reporting di sostenibilità. A partire da quest’anno, infatti, le aziende che rientrano nel perimetro di applicazione della direttiva dovranno comunicare anche il proprio impatto sulla perdita di biodiversità.
Lo Stockholm Environment Institute, in vista del summit, individua tre priorità:
- monitorare le filiere produttive, tracciando i loro impatti sulla biodiversità, per consentire alle persone di fare scelte d’acquisto consapevoli;
- lavorare con le comunità costiere e gli Stati insulari, anche attraverso finanziamenti ad hoc, per accrescere la loro resilienza;
- accelerare la transizione verso nuovi modelli economici basati sull’uso sostenibile della biodiversità (in gergo si parla di bioeconomia).
La ong The Nature Conservancy, da parte sua, sarà presente alla Cop16 e focalizzerà la sua azione di advocacy su tre aree:
- implementare l’accordo di Kunming-Montreal creando meccanismi di monitoraggio, accountability (cioè responsabilizzazione delle parti coinvolte) e finanziamento, anche coinvolgendo i popoli indigeni e cercando la giusta armonia tra le esigenze della conservazione e quelle della crescita economica;
- integrare i principi della biodiversità all’interno dei vari settori economici, tra cui l’agroalimentare, l’energia e la finanza;
- catalizzare flussi finanziari da indirizzare ai Paesi in via di sviluppo, ai popoli indigeni e alle comunità locali.