Oliviero Fiorenzi Water Zero Otto Cieli | ESG News

Intervista

Oliviero Fiorenzi in Otto Cieli valica le porte della sostenibilità

Quando Oliviero Fiorenzi ha iniziato a lavorare a Otto Cieli circa un anno fa, mosso dalla richiesta del curatore Riccardo Angossini di una mostra personale del giovane artista marchigiano presso The Address gallery a Brescia, ancora non sapeva che il suo lavoro avrebbe valicato le porte della sostenibilità ambientale.

Otto Cieli è un’istallazione formata da otto aquiloni pensati come soggetti e stati d’animo, recentemente ospitata anche negli spazi di Marsèll Paradise a Milano. Il caso, la lotta, il gioco, la passione, la paura, lo stupore, la scoperta, la contemplazione: ciascun aquilone rappresenta un capitolo dell’alfabeto simbolico di Fiorenzi e corrisponde a un paesaggio, a un cielo.

La ricerca materiali dell’artista ha portato all’incontro con l’azienda Majocchi, attiva nel settore tessile per brand di lusso, che ha supportato il progetto e ha spinto Oliviero Fiorenzi a utilizzare, per uno degli otto aquiloni, un tessuto Water Zero® a ridotto impatto ambientale. Lanciato da Majotech a luglio, Water Zero® è un processo di colorazione dei tessuti che riduce quasi a zero (- 99%) l’utilizzo dell’acqua e permette una drastica diminuzione del consumo di energia e di emissioni di CO2.

“Questa collaborazione mi ha fatto riflettere sull’attenzione che gli artisti e le artiste dovrebbero porgere nella scelta dei materiali, soprattutto nella fase di ricerca” racconta Oliviero Fiorenzi in questa intervista a Esgnews, aggiungendo: “Prima di essere artisti, siamo esseri umani ormai consapevoli dei propri impatti: è qui il nocciolo della questione”.

In Otto Cieli hai realizzato otto aquiloni che rappresentano otto emozioni, stati dell’essere. Da dove arriva l’ispirazione?

Da anni sto lavorando alla costruzione di una cartografia della mia memoria. Dal 2019, con il progetto Segnali, ho iniziato un processo di ricerca sul mio alfabeto visivo: un alfabeto pittografico costituito da immagini simboliche che fanno riferimento ad avvenimenti della mia vita personale. Ogni immagine che nel corso del tempo ho individuato rappresenta e racconta un ricordo, qualcosa che ho vissuto in passato soprattutto nel periodo dell’infanzia e della preadolescenza.

In Otto Cieli poi ho fatto un passo in più: ho provato a catalogare ulteriormente questo alfabeto visivo, e i miei ricordi, in stati d’animo o emozioni. Quindi ho preso otto tra le immagini simboliche del mio archivio (la tigre, il cavallo, il fuoco, la fame d’aria, le mani, il fiore, il cowboy, il vento) e a queste ho associato otto stati dell’essere (in corrispondenza: la lotta, lo stupore, la contemplazione, la paura, la ricerca, la passione, il gioco, il caso).

Cesare Pavese in Feria d’agosto scrive che viviamo le cose due volte: una nel presente e una quando ricordiamo, ed è attraverso il ricordo che le immagini diventano mito. Ognuno di noi ha quindi la propria mitologia individuale e quello che ho fatto, attraverso questo tipo di ricerca, è stato definire la mia. A partire da questo, mi interessa molto osservare come il personale possa riflettersi nel collettivo: il mio alfabeto è formato perlopiù da immagini archetipe, di immediata comunicazione, in cui ciascuno può trovare la propria risonanza e connettersi al proprio vissuto.

Come mai proprio gli aquiloni?

La scelta dell’aquilone è stata una conseguenza naturale del mio processo di ricerca. Lavoro con installazioni che dialogano con grandi spazi aperti e il fil rouge, a partire da Segnali, è il vento. In quel progetto del 2019, a supporto del mio alfabeto visivo ho usato boe e nasse dei pescatori, e l’installazione, quindi, era in mare. Ho indagato questo spazio e il modo in cui l’opera entrava in connessione con l’acqua, il vento, la luce, le onde, le nuvole, le ombre e in generale come era influenzata da differenti agenti atmosferici. Mi piace osservare come uno spazio espositivo all’aperto permetta al lavoro di vivere nell’attimo e di essere condizionato da fattori esterni – spesso naturali – in maniera incontrollata e imprevedibile, slegando l’oggetto artistico da me e dalla mia volontà.

Dopo aver esplorato il piano orizzontale, in quel caso il mare, volevo passare a quello verticale, e dunque all’altro spazio in continuo mutamento, ossia il cielo. L’aquilone era quindi l’oggetto perfetto per proseguire questa indagine spaziale e di paesaggio: una “tela volante” mossa dal vento che porta con sé il concetto, che a me interessa molto, di forma-funzione. L’aquilone ha infatti una funzione precisa, quella di volare (come la boa di galleggiare), ma l’aspetto funzionale di questo oggetto dialoga costantemente nel suo uso con l’aspetto poetico, per me centrale in quanto, a mio avviso, la funzione delle cose è poetica.

Quando e come hai incontrato l’azienda Majocchi nel tuo processo creativo? Cosa ti ha portato a scegliere tessuti di alta moda per la realizzazione del lavoro?

Stavo lavorando a Otto Cieli già da qualche mese e la mostra personale presso The Address gallery a Brescia era già stata definita. Avevo iniziato a fare ricerca materiali, indirizzandomi verso il nylon che, da quando è stato scoperto negli anni Trenta, è stato quello più usato dall’industria per costruire gli aquiloni. Ma, in realtà, non mi convinceva. Volevo lavorare con un materiale più pregiato che potesse nobilitare l’oggetto. Quando ho avuto la fortuna di entrare in contatto con l’azienda Majocchi, mi è parsa subito perfetta. Majocchi vanta numerose collaborazioni artistiche e lo statement aziendale è Quando il design incontra la performance, una dichiarazione d’intenti con cui questo mio filone di ricerca artistica ha molta assonanza.

Sono inoltre capitato in un momento particolarmente fortunato perché l’azienda stava per lanciare il tessuto Water Zero® che ho usato per uno degli otto aquiloni. In particolare, Water Zero® è un processo di colorazione dei tessuti che riduce quasi a zero (- 99%) l’utilizzo dell’acqua e permette una drastica diminuzione del consumo di energia e di emissioni di CO2.

Quale occasione migliore di un aquilone a vento per lanciare un tessuto ecosostenibile? Sembrava cadere a pennello, e così è stato.

La consapevolezza di lavorare con un tessuto dal ridotto impatto ambientale pensi abbia interferito, o abbia avuto qualche tipo di rilevanza, nel tuo processo creativo?

In Otto Cieli no, probabilmente perché il processo creativo del lavoro era già maturato quando ho incontrato Majocchi. Ma ha avuto un impatto su di me e sul mio modo di vedere a posteriori perché questa collaborazione mi ha fatto riflettere sull’attenzione che gli artisti e le artiste dovrebbero porgere nella scelta dei materiali, soprattutto nella fase di ricerca, indirizzandosi sempre più verso l’utilizzo di quelli che abbiano un impatto ambientale il più basso possibile.

Dunque, l’incontro e l’uso di un tessuto come quello Water Zero®, che raccontava intrinsecamente anche un’altra storia e aveva una caratteristica diversa rispetto agli altri suoi simili, mi ha dato modo di ragionare su questi temi che ritengo, inoltre, siano sempre più centrali e comuni anche nel mondo dell’arte. Per esempio, ad Artissima da tre anni hanno istituito il Premio FPT for Sustainable Art: penso sia un segnale da parte del sistema.

IL GIOCO – Il Cowboy, 2022

Nella sfida ambientale che l’umanità si trova ad affrontare – penso agli impatti del cambiamento climatico su risorse fondamentali come l’acqua – l’arte può quindi giocare un ruolo?

Sicuramente sì. Credo nella responsabilità dell’artista nei confronti della società e quindi l’arte può, e forse deve, essere di esempio in questo momento storico critico e di cambiamento, facendosi portatrice di determinate istanze e dinamiche di pensiero. Quindi un’artista non può, ad oggi, esimersi dal ragionare sugli impatti che la propria ricerca artistica ha nei confronti del pianeta e delle persone.

E non penso che questo significhi fare “arte politica”, bensì prendere atto del fatto che la conseguenza politica è intrinseca all’atto artistico in sé. Credo invero che questa sia una conseguenza dell’essere artisti che probabilmente esula dalla tematica in sé, perché in realtà questo tipo di attenzione dovrebbe venire spontaneo a tutti e tutte. Prima di essere artisti, si è infatti essere umani ormai consapevoli dei propri impatti, ed è qui il nocciolo della questione.