L’investimento sostenibile non è mai stato fermo. Ha continuato a evolversi per decenni, includendo una vasta gamma di asset class e di approcci. Alla base di tutto, però, c’è sempre stato un sistema di valori legato al concetto di difesa dell’ambiente e di equità intergenerazionale, nel rispetto dei principali temi identificati. L’arrivo degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG) nel 2015 ha ulteriormente contribuito a fornire a chi investe in sostenibilità un quadro di riferimento comune, seppur imperfetto.
Oggi viene messo in discussione uno dei più longevi pilastri dell’investimento sostenibile: l’esclusione delle armi dai portafogli sostenibili. Quella di vietare o meno le armi non è mai stata una semplice dicotomia, visto che gli investitori hanno sempre dovuto decidere, per esempio, se bandire qualsiasi arma oppure soltanto quelle vendute agli eserciti, se escludere solo i fabbricanti di armi o anche i loro rivenditori o, ancora, se trattare le armi da fuoco sportive alla stessa stregua delle bombe a grappolo.
Solitamente, la maggior parte di chi investe in sostenibilità condivide gli stessi principi fondamentali; inoltre, la pratica di evitare le armi più controverse non è prerogativa soltanto dell’investimento etico o sostenibile. In Svizzera, la Legge federale sul materiale bellico vieta a tutte le banche e ai fondi pensione nazionali di investire in attrezzature concepite specificatamente per il combattimento. Si tratta però di una gamma piuttosto ristretta di attività e, pertanto, l’associazione Swiss Sustainable Finance esclude dalle proprie stime di gestione sostenibile gli asset dei fondi che si limitano a bandire le armi sulla base dei requisiti minimi previsti per legge.
La guerra in Ucraina ha riacceso il dibattito, con alcuni investitori e commentatori che invitano a riconsiderare l’esclusione quasi totale delle armi dai portafogli sostenibili. Il nodo della questione è: le armi sono uno strumento davvero necessario a proteggere la pace e la democrazia? Potrebbero contribuire o addirittura essere indispensabili per il raggiungimento dell’SDG16 (Pace, giustizia e istituzioni solide)?
A febbraio, il dibattito è stato ulteriormente alimentato dalla proposta di una Tassonomia sociale per la finanza sostenibile dell’UE che definisca in modo esplicito come altamente controverse soltanto le armi davvero in grado di ostacolare gli obiettivi sociali. Si tratta di una definizione molto specifica, proprio come quella svizzera, che ammette la possibilità che armi da fuoco non militari contribuiscano al raggiungimento di altri obiettivi sociali, come la tutela dei diritti umani.
Per ora i sentimenti nei confronti delle armi sembrano troppo radicati per poter rivoluzionare i portafogli sostenibili nel breve termine. Un numero maggiore di armi non è garanzia di una società più sicura e pacifica; anzi, probabilmente è vero il contrario, visto lo stretto legame esistente tra un alto tasso di incidenti da arma da fuoco e la permissività in materia di detenzione. Nessuno ha la certezza che le società quotate in cui investe vendano armi esclusivamente per fare del “bene”, né ha modo di verificare che fine facciano realmente. E se è vero che gli obiettivi dell’SDG 16 potrebbero essere difficili da raggiungere, non va ignorato il suo primo traguardo, ovvero “Ridurre ovunque e in maniera significativa tutte le forme di violenza e il tasso di mortalità ad esse correlato”.
Non c’è dubbio che la discussione riemergerà in futuro, come spesso accade per molti temi che obbligano a un compromesso tra vantaggi e svantaggi. Mettere in discussione opinioni generalmente accettate è importante, anche se non siamo d’accordo o pensiamo di non esserlo.
Considerare punti di vista diversi ci costringe a prestare attenzione ai cambiamenti in atto e a chiederci se le nostre decisioni siano ancora valide e basate sulle evidenze. Alla fine, ne usciremo rafforzando ulteriormente le nostre convinzioni, oppure sviluppando una nuova visione più al passo con i tempi.