Il 24 febbraio il mondo è cambiato. L’attacco di Putin all’Ucraina ha segnato la fine della coesistenza pacifica della Russia con il “mondo occidentale”. Il rapporto cambierà, ben oltre la semplice ridefinizione della politica di difesa e di quella energetica. L’Europa risulta particolarmente vulnerabile agli eventi per la vicinanza geografica al conflitto, le interconnessioni economiche e la dipendenza dalle forniture di petrolio e gas russi.
Anche le relazioni politiche, culturali ed economiche potrebbero subire gravi ripercussioni indirette. Il che non si limita al solo rapporto dell’Occidente con la Russia, ma anche alle relazioni con la Cina, che sembra restare fedele a Mosca. La stessa esistenza di molte aziende europee è assicurata dal legame con l’Estremo Oriente. Per queste realtà la Cina è diventata negli anni un irrinunciabile luogo di produzione e mercato di sbocco. La guerra di aggressione di Putin si è abbattuta su un mondo ancora alle prese con le conseguenze della pandemia. Sembra che gli effetti della pandemia e la guerra in Ucraina si siano sommati per creare la tempesta inflazionistica perfetta in uno scenario in cui il prezzo delle materie prime era già elevato a causa degli strascichi della pandemia.
Persino le banche centrali, che fino a poco tempo fa insistevano sul fatto che le fiammate inflazionistiche fossero solo un fenomeno temporaneo, ora ammettono che la dinamica è più persistente di quanto ritenuto all’inizio, soprattutto per il fatto che il carovita continuerà a impattare sulla nostra quotidianità attraverso i cosiddetti effetti secondari.
Una fine imminente della guerra in Ucraina sembra oggi quasi inconcepibile. Finché Putin o i suoi fedelissimi saranno al potere, la Russia rimarrà probabilmente un partner incompatibile con il mondo occidentale. Anche un cessate il fuoco o il ritiro delle truppe non porrà fine alle sanzioni. Il regime di Mosca si è lasciato alle spalle troppa terra bruciata e il rischio per la sicurezza resta elevato in molti paesi.
Putin non può vincere la guerra perché ha già perso la pace. È qui però che risiede al contempo il maggior pericolo, perché per lo Zar non si può più tornare indietro. Uccidere civili e distruggere intere città fa parte della sua barbara strategia, solo così l’esercito russo ha qualche possibilità di occupare un paese grande come l’Ucraina. E poiché l’impresa si sta rivelando più ardua del previsto, non si esclude che il Cremlino possa ricorrere ad armi non convenzionali. A quel punto, Putin potrebbe addirittura spacciare ai suoi compatrioti la reazione dell’Occidente come una provocazione da parte della Nato, ampliando ulteriormente la portata del conflitto.
C’è da sperare che qualcuno al Cremlino si renda conto che Putin sta trascinando il suo paese nel baratro e cerchi a quel punto di rovesciare il governo. Ma con la Cina e l’India che rappresentano più di un terzo della popolazione mondiale, Putin ha due colossi dalla sua parte – o quanto meno non contro di lui. Entrambi i paesi, infatti, dipendono dalle importazioni di energia e generi alimentari che la Russia offrirà loro a condizioni speciali. È quindi plausibile che la Cina vorrà mantenerla come unico fornitore ufficiale di energia e materie prime.
L’Occidente deve impegnarsi a ridurre la dipendenza dalle importazioni di energia e materie prime russe e migliorare la propria capacità di difesa. Il rincaro dell’energia, i costi crescenti per la sostituzione dei combustibili fossili e la sicurezza delle forniture energetiche, l’aumento della spesa per la difesa e la riorganizzazione delle catene di approvvigionamento stanno mettendo a dura prova i bilanci statali e facendo lievitare i prezzi. I programmi di aiuto e sostegno del governo, come i sussidi energetici, mirano a limitare l’impatto di queste dinamiche sulle famiglie a basso reddito per scongiurare disordini sociali. Non riusciranno però a compensare in modo permanente gli effetti dello shock dei prezzi: lo Stato non ha abbastanza soldi.
Le prospettive economiche si sono notevolmente ridimensionate, specialmente in Europa. Se la minaccia della “stagflazione” assumerà proporzioni globali, non dipenderà solo dall’andamento dei prezzi dell’energia. La risposta è soprattutto nelle mani di un uomo: Xi Jinping.
Prosperità per tutti
Il presidente cinese sta cercando di rendere il suo paese indipendente dal commercio mondiale, in particolare per quanto riguarda le importazioni di tecnologia dall’Occidente. Entro il 2025, ad esempio, almeno il 70% della domanda di chip per computer dovrà essere soddisfatta dalle aziende nazionali. A lungo termine, l’obiettivo di Xi è sfidare la leadership statunitense in questo settore. Ma nonostante il suo grande impegno per l’autarchia, il presidente deve fare attenzione a una cosa: non può permettersi di abbandonare l’obiettivo dichiarato della “prosperità comune”. Deve quindi procedere con cautela, perché la Repubblica Popolare non può ancora fare a meno del commercio internazionale di beni, che rappresenta oltre il 30% del prodotto interno lordo. Una brusca interruzione degli scambi con l’Occidente non andrebbe a discapito solo di quest’ultimo, ma anche della stessa Cina, visto che molte delle sue aziende non possono ancora rinunciare alla tecnologia occidentale, e non solo per i circuiti integrati.
La pandemia di coronavirus ha offerto a Xi un ottimo pretesto per isolare ulteriormente il paese dall’estero e, allo stesso tempo, per dimostrare la superiorità della Repubblica Popolare nel contenere il virus. Quasi senza lamentarsi, milioni di persone hanno accettato di rimanere chiuse in casa per settimane, mentre in Occidente si discuteva sulle giuste strategie da adottare e a migliaia morivano negli ospedali per o di Covid.
La politica zero covid si scontra con i suoi limiti
Oggi, mentre la vita in Occidente sta tornando alla normalità grazie alla campagna vaccinale, la politica “zero Covid” di Xi si scontra sempre di più con i suoi limiti. Il lockdown disordinato di alcune metropoli ad aprile è stato un chiaro segno di incapacità. Né il Partito né i governi provinciali sembrano avere un piano B, il che rischia di spaventare anche gli investitori esteri.
Il problema è che i vaccini cinesi sono poco efficaci contro la variante Omicron del coronavirus. Tuttavia, se la Cina dovesse procurarsi l’ormai collaudato principio attivo della BioNTech, ammetterebbe il predominio della ricerca occidentale, danneggiando la reputazione di Xi. Se Pechino dovesse rimanere fedele alla sua strategia dogmatica e quasi autodistruttiva di controllo del Covid, il virus potrebbe diventare la più grande minaccia per l’economia cinese e mettere a repentaglio l’obiettivo della “prosperità per tutti”. Si tratta di un rischio significativo per Xi.
Un’ulteriore diffusione del coronavirus colpirebbe duramente l’economia cinese: crollo della produzione, disoccupazione di massa, calo dei consumi e aumento dei fallimenti aziendali sarebbero le conseguenze immediate. Ma viste le dimensioni di questo mercato e il forte legame con il commercio mondiale, le ripercussioni sarebbero considerevoli anche per l’economia mondiale.
La Camera di Commercio Europea in Cina ha riportato un calo del 40% delle merci movimentate nel più grande porto container del mondo, Shanghai, all’inizio di aprile rispetto alla settimana precedente. L’interruzione o addirittura la distruzione di numerose catene di approvvigionamento non solo frenerebbe la crescita, ma farebbe accelerare anche l’inflazione dei prezzi. Ecco perché la risposta alla domanda sulla possibile stagflazione è strettamente legata alla politica anti-Covid del governo cinese.