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Il Covid, gli antefatti
Il Covid 19 ha sferrato un colpo micidiale all’economia mondiale: la produzione è diminuita di un 3% che non ha eguali nella storia, ma nella prima fase l’inflazione è scesa considerevolmente perché la contrazione della domanda ha compensato i vincoli all’offerta e perché i prezzi delle materie prime sono diminuiti. Ma dopo la riapertura delle economie, il miglioramento della domanda, l’aumento dei prezzi delle materie prime, le interruzioni durature e non risolte della catena di fornitura e la carenza di manodopera sono fattori che, nell’insieme, hanno favorito un drammatico ritorno dell’inflazione in un contesto permeato ancora da politiche accomodanti in ambito monetario, fiscale e macroprudenziale. La riposta politica globale senza precedenti, che è stata tempestiva ed efficace nel ridurre i rischi ribassisti per la crescita e la domanda, non è riuscita invece a evitare gli squilibri derivanti dai vincoli alle catene di fornitura quando c’è stata la riapertura delle economie.
Dai beni ai servizi
Innanzitutto è salita l’inflazione da beni per via degli squilibri tra domanda e offerta. La domanda ha messo a segno una ripresa formidabile, favorita da stimoli fiscali e monetari generosi. A causa dei vincoli alla mobilità e ai consumi, la domanda si è spostata nettamente verso i beni, dove le problematiche della catena di fornitura sono più acute, e ciò ha provocato l’impennata dei prezzi dei beni. Le perturbazioni della catena di fornitura sono durate a lungo e sono migliorate solo di recente. Tuttavia, l’aumento dell’inflazione non è stato causato solamente dai beni: i prezzi del petrolio e delle materie prime, dopo essere rimasti nel 2020 al di sotto dei livelli precrisi durante la pandemia, sono saliti quando la ripresa mondiale è ridecollata nel 2021.
Di conseguenza, è scattata l’inflazione da generei alimentari che ha colpito molti Paesi emergenti vista il loro peso nei panieri dei consumi. Nella fase successiva, man mano che la ripresa prendeva piede, si è materializzata l’inflazione da servizi che ha spinto al rialzo l’inflazione sottostante, più pervicace e più generalizzata, che ha suscitato timori riguardo agli effetti di secondo impatto, soprattutto nelle aree in cui i mercati del lavoro erano più saturi.
Ragioni divergenti per l’inflazione negli Stati Uniti e in Europa
Negli Stati Uniti, gli squilibri del mercato del lavoro continuano ad avere un ruolo di primo piano riguardo all’outlook dell’inflazione. Lo spostamento verso un minor tasso di partecipazione della forza lavoro sta complicando la taratura del ritiro della politica (da una politica espansiva a una politica restrittiva). L’aumento dei salari, che inizialmente riguardava solo i lavori poco qualificati, si sta ora estendendo a tutta l’economia, l’inflazione rimane generalizzata nei servizi e a livello inerziale, e i rischi si stanno aggravando. Le priorità della politica sono ora quelle di rallentare rapidamente la crescita dei salari e di riequilibrare i mercati del lavoro. Nella zona Euro, vista la ripresa più lenta della regione rispetto agli Stati Uniti, l’inflazione è stata inizialmente trainata non tanto dal vigore della domanda quanto dai beni a causa dei vincoli all’offerta. Adesso, però, il principale fattore scatenante dell’inflazione sono i prezzi dell’energia. Pensiamo che l’inflazione nella zona Euro sia soprattutto un fenomeno importato e correlato all’offerta. Di conseguenza, la BCE si trova ad affrontare un compito impegnativo: ridurre la domanda non rallenterà necessariamente l’inflazione nel breve termine, mentre l’inasprimento delle condizioni finanziarie potrebbe pesare ancora di più sull’offerta.
I Paesi emergenti non sono tanto distanti
L’inflazione elevata si è diffusa in maniera generalizzata anche nei Paesi emergenti, ad eccezione della Cina e dei Paesi dell’ASEAN, almeno fino a poco tempo fa, e comunque in maniera più contenuta. In entrambe le regioni l’inflazione è rimasta sotto controllo. Ciò è dovuto in parte a una riapertura ritardata e graduale delle economie dopo che il Covid-19 ha rallentato le pressioni sulla domanda, e in parte a sussidi più efficaci. Per contro, nelle regioni CEEMEA e nei Paesi dell’America Latina l’inflazione si è più o meno mossa al rialzo con un certo anticipo, innescata da shock esterni e globali, amplificata da una marcata svalutazione delle divise, da una robustissima domanda interna e da mercati del lavoro saturi (CEE). Inoltre, alcuni Paesi emergenti hanno risentito di fattori idiosincratici (guerra in Russia, politiche non ortodosse in Turchia, crisi politica in Argentina e corsa del peso) che sono andati a sovrapporsi ai summenzionati driver sottostanti (squilibri tra domanda e offerta ecc.). Le banche centrali dei Paesi emergenti hanno reagito tempestivamente. In America Latina, l’inflazione sottostante da beni sta diminuendo grazie alla politica aggressiva delle banche centrali (ad es. BCB). Eppure, in Brasile l’inflazione da servizi sta salendo, con un impatto negativo sulla dinamica degli altri tipi d’inflazione. E grazie alle politiche della BCB (più i tagli alle imposte e ai prezzi del carburante), l’inflazione ha già iniziato a scendere mesi fa, ma a scapito della crescita.
In conclusione, crediamo che l’inflazione ora rappresenti la fonte primaria di preoccupazione per i decisori politici in tutto il mondo, anche se i trend e i driver variano da regione a regione. Anche se l’inflazione sembra ormai aver raggiunto il picco in alcuni Paesi come gli Stati Uniti, nel breve termine rimarrà comunque al di sopra degli obiettivi delle banche centrali. Gli investitori dovrebbero quindi puntare ai rendimenti reali nonostante l’attuale decelerazione della crescita