L’economista Paul Samuelson una volta ha detto: “Quando i fatti cambiano, io cambio idea. E tu cosa fai?”. Molti fatti economici sono cambiati negli ultimi trimestri. In effetti, tutto ciò a cui sto assistendo suggerisce che stiamo vivendo un cambiamento di paradigma nel mondo degli investimenti. Stiamo passando da un mondo di disinflazione benigna a uno di inflazione tendenzialmente più elevata; da un contesto di tassi d’interesse molto bassi a un contesto di tassi in aumento; da un lungo periodo di bassa volatilità a un periodo in cui la volatilità sarà probabilmente elevata; dalla globalizzazione alla de-globalizzazione; dalla massima liquidità al ritiro della liquidità; e, cosa forse più importante, da un’epoca di valutazioni elevate sia per le azioni che per il reddito fisso a una più vicina alla norma storica. Come dovrebbero reagire gli investitori a un contesto simile?
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Imparare dal passato
Per capire il presente, a volte è utile studiare il passato. A metà degli anni ‘60, ad esempio, l’inflazione iniziò a salire dopo un lungo periodo di inflazione generalmente bassa. Continuò a salire per tutti gli anni ‘70 e nei primi anni ‘80 – periodo che divenne noto come Grande Inflazione – e incorporò quattro recessioni, due gravi crisi energetiche, un lungo periodo di stagflazione e livelli mai visti prima di controlli sui salari e sui prezzi in tempo di pace.
La Grande Inflazione durò fino al 1982, ma i semi della sua inversione furono gettati quattro anni prima, quando si concluse il mandato di Arthur Burns alla presidenza della Fed. Durante i suoi otto anni di presidenza, Burns si dimostrò poco incline ad affrontare il problema dell’inflazione e fu ampiamente considerato una pedina politica. Per volere del Presidente Nixon, Burns tagliò i tassi di interesse proprio quando avrebbero dovuto essere aumentati, alimentando un boom economico statunitense in vista delle elezioni del 1972.
Fuori il vecchio, dentro il nuovo
Burns fu sostituito nel 1978 da George William Miller, ma fu Paul Volcker, che assunse la presidenza della Fed nel 1979, a determinare la fine della Grande Inflazione. Volcker, che aveva capito che la banca centrale aveva un ruolo vitale da svolgere nella lotta all’inflazione, alzò immediatamente i tassi di interesse. Questo portò alla dolorosa recessione del 1980-1982, suscitando proteste diffuse e attacchi politici, ma introdusse anche una nuova era di disinflazione.
Ci sono alcuni parallelismi anche oggi. L’attuale periodo di inflazione, come quello di mezzo secolo fa, è iniziato dopo un lungo periodo di bassa inflazione. E gli shock dei prezzi globali dell’energia e dei generi alimentari hanno aggravato il problema negli anni ‘70, proprio come oggi. Stiamo quindi per entrare in una nuova Grande Inflazione?
Non credo. Nonostante le analogie tra il presente e gli anni ’70 e i primi anni ’80, ci sono anche differenze significative. Negli anni ’70, la Fed era sottoposta a forti pressioni per evitare politiche anti-inflazionistiche che avrebbero rallentato la crescita; oggi, l’attuale presidente della Fed Jerome Powell gode di un notevole sostegno da parte della Casa Bianca e del Congresso nei suoi sforzi per ridurre l’inflazione.
Il fatto che la maggior parte delle principali banche centrali siano oggi indipendenti ci pone in una posizione molto migliore per controllare l’inflazione rispetto agli anni ‘70 e ai primi anni ‘80. Credo che la situazione rimarrà tale. Sarebbe folle perdere la credibilità in materia di inflazione che è stata conquistata con tanta fatica nel corso dei decenni.
Una nuova era per i mercati finanziari
C’è però un rovescio della medaglia: se le banche centrali indipendenti e orientate all’inflazione sono positive per l’economia, non lo sono necessariamente per i mercati finanziari, almeno nel breve periodo. Negli ultimi 14 anni, queste hanno consapevolmente cercato di mantenere alti i prezzi degli asset come parte dei loro pacchetti di stimolo. Ora non è più così. Almeno per il momento, sembra che le banche Centrali non si preoccupino tanto del vostro portafoglio azionario, quanto di inasprire le condizioni finanziarie e mantenere il funzionamento dei mercati finanziari.
Questo è il cambiamento di paradigma a cui mi riferivo e che potrebbe avere implicazioni di lunga durata. Secondo il vecchio paradigma, era possibile avere successo individuando il miglior asset di ogni settore e osservandone l’aumento di valore. È improbabile che questo funzioni nella nuova era. I giorni delle valutazioni elevate, alimentate dalla generosità delle banche centrali, sono finiti. Nella nuova era, gli investitori dovranno probabilmente essere più sensibili alle valutazioni rispetto ai tempi recenti. Le competenze tradizionali, come la capacità di individuare driver azionari e rischi idiosincratici, continueranno a essere essenziali, ma potrebbero essere necessari quadri d’investimento più sofisticati e olistici per tenere conto di fattori macroeconomici, sociali e geopolitici più ampi, oltre che dei fondamentali delle società.
Investire in una nuova era
Non fare nulla non è una strategia: gli investitori che avranno successo nel periodo a venire saranno probabilmente quelli che sapranno evolvere al meglio i loro processi alla luce della nuova realtà.
In pratica, ciò significa pensare al costo opportunità di ogni posizione detenuta. Significa ascoltare i punti di vista degli altri, in particolare quelli che non sono in linea con i nostri. Significa assumersi solo i rischi ritenuti opportuni per evitare di compromettere il proprio portafoglio. Significa rimanere attivi, perché la volatilità è nostra amica.
Probabilmente ci troviamo nella fase iniziale di un ciclo di revisione negativa degli utili, quindi, è importante che gli investitori testino i modelli e capiscano dove gli utili sono più vulnerabili.
Le dinamiche di mercato sono cambiate, probabilmente in modo permanente, ma questo non significa che non ci sia possibilità di generare alpha. Ritengo che gli investitori attivi che saranno in grado di adattarsi al nuovo paradigma abbiano buone possibilità di uscire da questo periodo difficile più forti che mai.