Immagine di un ramo su sfondo verde

L'opinione di Rodolfo Fracassi, amministratore delegato e co-fondatore di MainStreet Partners

Il binomio rischio-rendimento premierà gli investimenti green

L’entrata in vigore del Regolamento sulla disclosure delle informazioni relative alla sostenibilità nel settore finanziario (SFDR) il 10 marzo è un passo importante ma è solo l’inizio: infatti a questo primo giro di boa gli obblighi di disclosure sono stati piuttosto qualitativi.

I prossimi passi saranno però ben più impegnativi: dal 2022 entreranno in gioco variabili decisamente più quantitative e già dalla fine del prossimo anno è prevista la comunicazione della percentuale di investimenti allineati alla tassonomia ambientale, almeno per le strategie che si pongono quel tipo di obiettivi. Dal 2023 entreranno in gioco anche i PAI (Principles on Adverse Impact) ovvero una serie di metriche ambientali e sociali secondo le quali misurare i risultati extra-finanziari non solo dei singoli portafogli ma anche a livello di market participant ossia a livello di società d’investimento. Si dovranno seguire specifiche metodologie per calcolare quattro volte all’anno le metriche PAI per rappresentare i risultati di ogni anno solare. Tale esercizio sarà certamente non banale per i grandi gruppi finanziari specializzati in ESG e rappresenterà un significativo ostacolo per gran parte dell’industria. Insomma, il piano di gioco si sposta da comunicazioni qualitative alla necessità di misurare puntualmente e comunicare in modo quantitativo il contenuto effettivo degli investimenti.

A questo primo test parte del settore finanziario ha reagito sottovalutando l’impatto di queste future
comunicazioni.
Integrare i rating ESG nel processo d’investimento non basta per realizzare risultati positivi o migliorativi rispetto a determinati parametri extra-finanziari, oltre che cercare di battere i benchmark sul piano finanziario.

Oggi, un numero sorprendentemente elevato di fondi si sta classificando come articolo 8 o 9 della regolamentazione UE, ovvero dichiara di promuovere fattori ESG o addirittura punta a realizzare obiettivi di sostenibilità, ma quanti di questi prodotti dal 2022 saranno davvero capaci di mostrare agli investitori buone performance sociali e ambientali? Saranno in grado di ridurre la CO2 rispetto al benchmark, di allinearsi agli accordi di Parigi sul riscaldamento globale, di ridurre le diseguaglianze, di migliorarsi di anno in anno su questi aspetti, oltre che realizzare gli obiettivi di rendimento? Oppure si limiteranno a calcolare la media del rating ESG senza badare ai KPIs sottostanti?

I prossimi mesi saranno cruciali per osservare il comportamento del mercato rispetto a questo importante cambiamento. In particolare, guardiamo agli aspetti ambientali dove maggiore è la disponibilità di dati affidabili: gli accordi di Parigi impongono di contenere il riscaldamento globale entro i 2° C per la fine del secolo rispetto al periodo preindustriale. Questo obiettivo passa dall’assegnazione di budget sull’emissione di CO2 ad ogni paese, ogni settore e alle aziende all’interno di essi sulla base del loro ambito di operatività in modo da rimanere al di sotto di una soglia predefinita di emissioni da qui ai prossimi anni. Non sarà un sistema perfetto, ma è il sistema sul quale ci si è accordati, quindi avrà un impatto rilevante sulle scelte delle aziende e di conseguenza di chi gestisce capitali.

La tassonomia è il “libretto delle istruzioni” per arrivare agli obiettivi prefissati in termini di contenimento della temperatura. Una volta completati i parametri di riferimento, ci dirà per esempio quanta CO2 un’azienda possa emettere rispetto al suo fatturato per essere considerata sostenibile nel suo settore di riferimento. Lo stesso per altre grandezze rilevanti come il consumo di acqua, la gestione degli scarti e simili.

Rodolfo Fracassi, amministratore delegato e co-fondatore di MainStreet Partners

Ad oggi si stima che solo il 2% del fatturato delle aziende nello Euro Stoxx 50 sia allineato alla tassonomia, lo stesso vale per le aziende nell’indice DAX e secondo una ricerca di PWC questa percentuale si estende a livello di aziende Europee complessivamente . La strada è ancora molto lunga prima di allineare una porzione rilevante dei portafogli alla tassonomia e agli obiettivi sul riscaldamento globale. D’altra parte, vale la pena sottolineare che il beneficio è anche finanziario: nei settori che maggiormente contribuiscono alle emissioni di gas serra (Utilities, Energy e Materials), negli ultimi cinque anni gli utili per azione sono cresciuti del 25% in più per le aziende che hanno affrontato seriamente la transizione da brown a green rispetto a quelle che sono rimaste indietro e nel 2020, questo si è tradotto in una over-performance di oltre il 30% nel prezzo delle loro azioni. La sfida ora è capire se e quanto queste variabili saranno determinanti in tutti gli altri settori.

Se la storia di questi ultimi cinque anni in Europa ci insegna qualcosa allora è molto probabile che la
Tassonomia UE e le metriche ambientali troveranno un posto di primo piano nei modelli gestionali e di
risk management da qui al 2030
: molte decisioni verranno prese anche sulla base di questi parametri che, oltre ad aiutare immensamente sul piano comunicazionale, ci forniranno importanti indicazioni per
migliorare il profilo di rischio e rendimento dei portafogli. Insomma, gestire al meglio i portafogli di
investimento e generare una performance finanziaria positiva vorrà sempre più dire “Follow the (green)
money”.