Intervista a Manuela Mazzoleni, direttore Sostenibilità e Capitale Umano di Assogestioni

Fondamentale rendere più comprensibili ai risparmiatori le caratteristiche dei fondi ESG

Assogestioni, l’associazione italiana delle società di gestione del risparmio, compie quest’anno il 40° anniversario dalla sua fondazione e da oltre 20 ha iniziato a comprendere l’importanza delle tematiche della sostenibilità nel risparmio gestito. È stata tra i fondatori del Forum per la Finanza Sostenibile in Italia e ora svolge un ruolo cruciale nel processo di accompagnamento delle Sgr nelle fasi di recepimento delle norme europee. Non solo. Tra i suoi compiti fondamentali vi è quello di “portare la voce del risparmio gestito italiano” presso le autorità dell’Unione Europea, nella fase di definizione delle nuove norme. 

È il caso, per esempio, dell’attuale revisione del regolamento SFDR (Sustainable Finance Disclosure Regulation) che, a oltre tre anni dall’entrata in vigore, è ora in fase di definizione, tanto che tra settembre e dicembre la Commissione europea ha aperto un periodo di consultazione sulla norma. 

“Assogestioni, dopo aver sentito il parere degli associati, ha proposto un sistema volontario di etichettatura. Nel nostro modello ideale c’è una disclosure standard semplificata rispetto a quella attuale, ma comunque in linea con la normativa, che non distingua più i prodotti in articolo 8 o 9, ma in fondi con un claim ESG”, afferma Manuela Mazzoleni, direttore Sostenibilità e Capitale Umano di Assogestioni. “Entro fine anno ci aspettiamo indicazioni sulla direzione che il regolamento prenderà”, aggiunge l’esperta. 

Le criticità principali che hanno spinto l’organismo europeo a domandare ai player di mercato di esprimere le proprie opinioni sul regolamento riguardano la scarsa chiarezza di alcuni concetti contenuti nella SFDR e i requisiti altamente stringenti.

La revisione rappresenta un passaggio importante visto il ruolo centrale nella diffusione della finanza sostenibile giocato dalla normativa sull’informativa relativa alla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari. Da un lato ha infatti permesso agli investitori di essere più consapevoli sulle proprie scelte di investimento ESG, dall’altro ha spinto le società di gestione (Sgr) ad ampliare la gamma di prodotti sostenibili offerti. Allo stesso tempo, però, l’attuazione della SFDR ha messo alla prova gli operatori di mercato. In parte a causa della mancanza di chiarezza sullo stesso concetto di “investimento sostenibile”, ma anche per la difficoltà di classificazione dei fondi in articolo 8 e articolo 9, i cui requisiti sono da alcuni giudicati troppo ambiziosi. 

Abbiamo chiesto a Manuela Mazzoleni il suo punto di vista sui recenti sviluppi della normativa sulla finanza sostenibile e sulla diffusione della sostenibilità tra gli asset manager. 

Qual è il ruolo di Assogestioni nei confronti dei propri associati riguardo le tematiche ESG?

Assogestioni è sempre stata attenta alle tematiche della finanza sostenibile, anche quando non se ne parlava in modo così diffuso. Basti pensare che 20 anni fa l’associazione ha co-fondato il Forum per la Finanza Sostenibile in Italia. Chiaramente, il suo ruolo ha seguito il percorso di evoluzione dell’attenzione riservata a questa materia nel mondo finanziario. Attualmente Assogestioni svolge infatti un’attività di accompagnamento delle Sgr nel monitoraggio, integrazione e messa a terra della normativa. Nel dettaglio, l’associazione partecipa a tutto il processo di consultazione a livello di Commissione UE (e non solo), instaurando un dialogo con le associate e portando la voce del risparmio gestito italiano al cospetto delle autorità europee. L’associazione è poi presente anche nella fase di recepimento della normativa ed è dotata di un polo che sprona il confronto tra le Sgr sulla sfidante tematica dell’integrazione dei criteri ESG nei processi di investimento.

Nel 2023 la raccolta dei fondi ESG ha subito per la prima volta una pausa di riflessione. Come la spiega e quali sono le sue aspettative per il futuro?

La pausa della raccolta dei fondi ESG in Europa non deve trarre in inganno, lasciando intendere che le tematiche della sostenibilità non abbiano più attrattiva. Circa il 40% degli asset under management in Italia è investito in fondi articolo 8 e 9, mostrando che il peso di questi prodotti è molto significativo. Le oscillazioni della raccolta, in questo caso negativa, sono il frutto di fattori contingenti come i conflitti, la crisi petrolifera o il clima politico che si respira soprattutto negli Stati Uniti (politica anti-ESG, ndr). Ma ora più che mai è tempo di ESG e l’impegno delle Sgr è crescente. E con l’entrata in vigore della CSRD, che obbligherà le imprese a fornire disclosure sulla propria performance sostenibile, diventerà sempre più difficile – anche per le società che non sono particolarmente votate all’investimento sostenibile – trascurare questo aspetto. 

Le società di asset management vengono da un periodo di grandi trasformazioni con l’introduzione della SFDR e ora si profila già una revisione. Quali sono le ragioni di questo aggiornamento e quali benefici porterà?

La revisione del regolamento si è resa necessaria perché, se la Commissione è partita con grande entusiasmo e il mercato l’ha seguita, i concetti contenuti nella SFDR erano in realtà molto nuovi e indefiniti. Gradualmente, le Sgr hanno iniziato a metterli in pratica e da quel momento sono emerse le effettive criticità della norma. Un esempio concreto è il mancato riconoscimento dell’importanza del ruolo dell’investimento nella transizione che, presente nell’Action Plan 2018 della Commissione europea, non ha poi trovato spazio nel regolamento. La norma, piuttosto, tende a dividere l’universo investibile in buoni e cattivi, ovvero in società sostenibili oppure no. Questa rigida classificazione ha generato spazio per le accuse di greenwashing nei casi di Sgr che, impegnate negli investimenti in transizione, finanziavano aziende brown. In realtà, è fondamentale supportare le imprese sostenibili, ma lo è forse ancora di più sostenere quelle che non lo sono. L’auspicio è che questo aspetto venga inserito nella revisione della SFDR. 

La definizione di articolo 8 e articolo 9 lascia spazio a incertezze per gestori e investitori. Ritiene che sia il momento di passare a una classificazione più chiara come le ESGlabel?

Secondo Assogestioni sarebbe utile avere un sistema volontario di etichettatura. Nel nostro modello ideale c’è una disclosure standard semplificata rispetto a quella attuale, ma comunque in linea con la normativa, che non distingua più i prodotti in articolo 8 o 9, ma in fondi con un claim ESG. A tal fine è necessario prevedere un’informativa standard (obbligatoria) con indicatori quantitativi specifici. Sarebbe auspicabile anche lasciare agli investitori retail meno informati la possibilità di utilizzare label che permettano loro di comprendere meglio le complessità e le caratteristiche principali del prodotto. Label, sia chiaro, che devono essere definite dal legislatore. Assogestioni ne ha proposto al momento tre, ma il processo di generazione della norma è ancora immaturo ed è difficile prevedere quale posizione prevarrà tra le innumerevoli nel variegato panorama degli operatori di mercato. Al momento l’associazione ha risposto alla consultazione, in rappresentanza delle associate, ora la palla è in mano alla Commissione. Entro fine anno ci aspettiamo indicazioni sulla direzione che il regolamento prenderà. 

A che punto sono gli asset manager nell’attuazione della disclosure richiesta dalla SFDR?

Da quando è entrata in vigore, gli asset manager hanno dovuto rispondere volenti o nolenti. L’informativa è abbastanza prescrittiva e dettagliata, sebbene il grado di dettaglio sia poi diverso tra i gestori. In parte c’è un tema di maturazione di chi produce i documenti da cui vengono tratti i dati, dall’altro lato l’immaturità è anche di chi li recepisce, in alcuni casi. D’altronde, la Commissione ha iniziato a pretendere le disclosure prima dagli investitori invece che dalle aziende e questo ha causato un forte stress alle Sgr, soprattutto nella fase di recepimento dei dati e delle informazioni, ma anche nel momento di confronto tra i vari data provider. La verità è che la disclosure degli intermediari (cioè le Sgr, ndr) riflette il livello e la qualità di quella delle informazioni sottostanti (quindi delle imprese, ndr). 

Per quanto riguarda, invece, l’informativa sull’attività stessa dei gestori, lo strumento più utilizzato sono i PAI (Principal Advers Impact), indicatori che mostrano gli impatti negativi delle società su ambiente e persone. C’è però un punto fondamentale che va sottolineato quando si parla di disclosure di prodotti finanziari ESG: spesso vengono riportate troppe informazioni, anche eccessivamente dettagliate. Questo fenomeno aumenta la complessità e riduce la significatività delle informazioni perché gli investitori non riescono a gestirle. L’importante non è tanto quanto si comunica, ma piuttosto concentrarsi sulla coerenza di ciò che si divulga. 

Cosa deve aspettarsi un investitore da un fondo ESG o da un prodotto sostenibile?

L’approccio di mercato, che coincide con quello europeo, prevede che ogni investitore possa avere delle aspettative diverse. Ciò significa che domanda e offerta devono incontrarsi: se un risparmiatore è più ambizioso, deve poter destinare le sue risorse a fondi a impatto, mentre se è meno consapevole e impegnato sul tema ESG, potrebbe accontentarsi di un minimo screening. E questo è il cuore della norma. Ciò che conta è che il gestore comunichi con chiarezza gli obiettivi sottostanti l’investimento.