Ha un’atmosfera diversa l’undicesimo incontro della performance diffusa del Manifesto dell’Abitare promosso e ospitato dallo studio di design e architettura FERRILLOBELLI. L’architetto, fondatore dell’omonimo studio, Fabio Ferrillo Belli ha infatti aperto le porte di casa e offerto un momento di socialità e condivisione sui temi dell’accoglienza e della cultura queer, ponendoli in relazione con il tema dell’abitare e della sostenibilità. Un incontro familiare animato dalle riflessioni degli amici del Manifesto, evolutosi in un dialogo aperto sulle modalità con cui l’architettura può farsi portatrice in modo attivo di inclusività e aprirsi a modalità progettuali mutevoli e plasmabili a seconda delle diverse esigenze e bisogni.
“La sfida è porre l’insieme di individui, cioè la società civile, al centro, con tutto ciò che questo comporta”, dichiara Ferrillo Belli, “Perché non ha alcun significato intellettuale progettare un luogo senza domandarsi come e in che termini sarà occupato, vissuto, rispettato”.
L’architetto ha raccontato come la decisione di aderire al Manifesto sia stata mossa dal desiderio di poter alimentare le sfere più intellettuali ed umanistiche della professione che stimolano poi l’attuazione di pratiche innovative, quindi il progresso.
E l’evoluzione, oggi, è nel guardare allo spazio abitativo come un luogo mutevole a seconda delle esigenze di chi lo abita. Non si può più pensare infatti, sottolinea l’architetto, di proporre e pensare ad ambienti standard figli di una visione unica e di una percezione monolitica di famiglia, per esempio.
In una società che presenta sfumature relazionali in mutamento, Queer è un modo di vivere che celebra l’accoglienza dei cambiamenti. “Questo si traduce in un tipo di relazioni, anche famigliari, composite e dove sono presenti bisogni unici che è importante siano rispecchiati nella propria casa affinché possa essere un luogo in cui chi ci abita si senta rappresentato e accolto” spiega Ferrillo Belli.
E se da un lato l’architetto è per definizione un professionista che deve saper ascoltare le necessità del cliente nell’ideare un progetto e costruire un’abitazione (o impara con la pratica a farlo), dall’altro troppo spesso separa ancora l’aspetto relazionale e umano dai tecnicismi progettuali, nonostante l’accoglienza dell’altro e delle sue necessità siano quasi metafora della professione.
D’altro canto, se è vero che le rivoluzioni meglio riuscite (o più ricordate) nella Storia sono quelle “dal basso”, diventa interessante constatare come una casa accogliente, e soprattutto in cui ci si sente accolti, possa diventare focolaio di cambiamento sociale e inclusione. Partire quindi dalla progettazione di luoghi accoglienti e inclusivi per insegnare l’accoglienza, facendola vivere, affinché il benessere percepito negli ambienti casalinghi possa essere motore ed emanazione di quel modo di stare e di essere anche fuori le mura di casa.
Una riflessione dai risvolti forse utopisti per alcuni e/o alcune, ma che parla di un “essere architetto” e non “farlo”. Di un incarnare la professione ed essere agenti attivi di cambiamento e non esecutori robotici.