Quando si parla delle differenze e dei rispettivi vantaggi o svantaggi di investimenti attivi e passivi ci si addentra sempre in un discorso complesso. Gestione attiva o passiva? Questo è il tema su cui si è concentrato l’intervento organizzato da AllianceBernstein e Vanguard alla rassegna annuale organizzata da Anasf (Associazione Nazionale Consulenti Finanziari) dedicata ai consulenti finanziari, ConsulenTia.
Per fare maggiore chiarezza, le società di gestione si sono affidate al parere di esperti appartenenti alle reti di distribuzione, coadiuvati dall’introduzione di Paolo Cucurachi, docente presso l’Università Bocconi, che ha illustrato le evidenze maggiormente significative nel confronto fra investimenti attivi e passivi.
“La moda di oggi sono i fondi indicizzati che seguono lo Standard & Poor’s 500. È vero, la media ha battuto sonoramente la maggior parte dei fondi azionari negli ultimi dieci anni. Ma questa è una verità eterna o transitoria?”. Questa è la citazione di William Sharpe, risalente al 1991, da cui parte Cucurachi. “Si tratta di un dibattito che affonda le radici nella teoria di portafoglio degli anni ’60 – prosegue il docente. – A prescindere dalla tipologia di gestione di un prodotto, ciò che conta sempre è che sia presente il benchmark nel processo di costruzione di un portafoglio”. Un dato interessante che emerge dall’intervento di Cucurachi è che la differenza tra classi retail e classi istituzionali non ha impatti tanto sui margini del produttore, quanto piuttosto su quelli del consumatore.
Giovanni De Mare, Country Head di AllianceBernstein pone l’attenzione sulla volatilità dovuta al contesto geopolitico attuale, che porterebbe un gestore a ridurre il peso dell’equity e, quindi, della parte attiva di un portafoglio. “Questo, però, sarebbe un errore di metodo. – avverte De Mare – Una strategia vincente, invece, sarebbe individuare un gestore attivo che riduca la fase di ribasso. Escludere una delle due gestioni sarebbe un errore”.
La soluzione ottimale, secondo gli esperti, è utilizzare i due strumenti in modo combinato per costruire portafogli diversificati che sfruttino le potenzialità dei due tipi di approcci. Quindi, anziché fare una scelta di campo tra fondi attivi e passivi, vanno selezionati gli strumenti più adatti per realizzare un’asset allocation che comprenda una parte di investimenti passivi e una di attivi. Secondo Simone Rosti, Country Head di Vanguard, questo è vero per tre motivi: “Innanzitutto per l’evidenza che proviene da dati e analisi scientifiche come quelle del professore Cucurachi. Inoltre, ciò è vero anche in base alle tendenze presenti nel mercato. Infine, sulla base dell’esperienza della consulenza finanziaria americana, che è la più ibrida e anche la più efficiente”.
Secondo Marco Bernardi, vicedirettore generale di Banca Generali, tutto sta nel saper integrare i due approcci: “Gli strumenti sono buoni o meno buoni a seconda dell’uso che se ne fa. – spiega Bernardi – Noi di Banca Generali stiamo cercando di includere sempre più i prodotti passivi, soprattutto gli ETF, che sono strumenti molto validi se usati correttamente”.
Anche per Duccio Marconi, direttore centrale Rete Financial Advisor di Che Banca!,“limitare la scelta dell’universo investibile è un limite”. “Ciò che conta – prosegue Marconi – sono le necessità dei clienti. In un mondo ormai estremamente complesso, l’advisor deve cambiare mentalità, soddisfacendo i singoli bisogni. Non esiste più la logica dell’investimento migliore tout court, ma piuttosto di quello specifico”.
Nicola Viscanti, Head of Advisors di Banca Widiba, evidenzia un altro aspetto legato alla gestione ibrida: “La scelta di consulenza ibrida spetta al consulente, che deve seguire sempre e comunque la logica di soddisfare il cliente”.