Il ruolo internazionale del dollaro venne certificato nella Conferenza di Bretton Woods nel 1944, dove si stabilì che il nuovo sistema monetario globale si sarebbe basato sulla convertibilità in oro del biglietto verde. La convertibilità venne abbandonata nel 1971 ma anche nel nuovo regime dei cambi flessibili il biglietto verde restava al centro del Sistema, sostenuto dal petrolio anziché dall’oro. Oggi la determinazione della Federal Reserve nel contrasto all’inflazione ha portato il dollaro ai massimi da vent’anni e vicino alla parità con l’euro. “Il dollaro è la nostra moneta e un vostro problema” disse il Segretario al Tesoro nel 1971. A distanza di cinquant’anni la forza del biglietto verde resta un problema per molti.
Innanzitutto, per la Russia. Il congelamento di parte delle riserve valutarie della banca centrale è stato un duro colpo alla stabilità finanziaria di Mosca, ma l’azione senza precedenti nei confronti di un grande paese costituisce un precedente che fa intravedere un cambio di direzione del sistema monetario. Il legame tra egemonia politica ed egemonia finanziaria è stato smascherato, l’accesso alle riserve detenute negli Stati Uniti o nei paesi loro alleati ha perso la sua neutralità rispetto alla politica estera.
Con la guerra in corso e le sanzioni occidentali il rublo si è rafforzato e sembra godere di ottima salute ma è un’illusione ottica. I rubli vengono comprati dagli esportatori, costretti a convertire nella moneta nazionale buona parte dei flussi in euro o in dollari, ma non è consentito vendere rubli in cambio di altre valute, anche se probabilmente molti russi lo farebbero volentieri. Il rublo è un OGM valutario, artificialmente rafforzato costituisce un danno per gli esportatori e in nessun caso rappresenta una minaccia all’egemonia del dollaro.
Mosca lo sa bene, per questo cerca un’alternativa al dominio valutario americano chiedendo la collaborazione della Cina e degli altri paesi BRICS per istituire, all’interno dei diritti di prelievo del Fondo Monetario, una valuta rappresentativa delle valute di grandi paesi esportatori di materie prime, in esplicita concorrenza al dollaro.
È un invito seducente, la forza del dollaro costituisce un danno alle economie emergenti. In questi sei mesi sono usciti dagli investimenti obbligazionari emergenti cinquanta miliardi di dollari, un deflusso molto più ingente di quello del 2015, in giugno l’’indice JPMorgan GBI Emerging Market Global Diversified è sceso del -4,5% con le preoccupazioni dei mercati concentrate sulle prospettive dell’attività economica. I rischi di recessione sono alimentati dagli aumenti dei tassi e dalla possibilità che la Russia interrompa l’erogazione di gas all’Europa. Il calo dei prezzi nei prodotti agricoli e nei metalli industriali hanno penalizzato anche i paesi esportatori di materie prime, ad esempio Brasile e Cile.
I tassi americani e la forza del dollaro rendono lo scenario incerto per i mercati emergenti, vulnerabili al triplice colpo della concorrenza dei rendimenti di nuovo interessanti nei Treasury, delle prospettive di recessione economica, della sostenibilità di debiti denominati in dollari. Un aiuto concreto di recupero può venire dalla ripartenza dell’economia cinese dopo i blocchi legati al Covid e con la confortante presenza delle autorità, impegnate nel sostenere la crescita. Ricordiamo che le banche centrali dei paesi emergenti sono molto più avanti nel ciclo di rialzo.
Per il governo di Pechino la crescita economica è vitale per affermarsi come potenza globale: il passaggio a un ordine monetario diversificato e non più basato sulla centralità degli Stati Uniti è considerato vantaggioso per il renminbi.
Tuttavia, la strada della de-dollarizzazione è ancora lunga. Dal 1999, anno in cui venne inaugurata la moneta unica in Europa, la quota di attività in dollari nelle riserve delle banche centrali è scesa di dodici punti percentuali, dal 71% al 59% a favore dell’euro e di altre valute non tradizionali come dollari canadesi e australiani, corone svedesi e yuan.
Le ambizioni valutarie della Cina fondano sulla forza economica, sull’ampiezza degli scambi commerciali e, più recentemente, sulla sua forza militare. Ma non bastano. Non è sufficiente desiderare lo status di valuta globale per ottenerlo, il gradimento globale verso la propria moneta non si chiede né tantomeno lo si può pretendere.
Negli ultimi cento anni gli Stati Uniti hanno esercitato l’egemonia politica con cinismo e quella economica con pragmatismo eppure, nonostante la spregiudicatezza e gli errori commessi, il loro ordinamento democratico ha favorito la formazione e il funzionamento di un mercato dei capitali libero, ampio ed efficiente. La fiducia è la valuta più importante nelle relazioni economiche, il renmimbi o il paniere di monete sostenute da materie prime immaginate dall’alleanza dei paesi BRICS non prenderanno mai il posto del dollaro, perlomeno non fino a quando dietro quelle valute ci saranno regimi autoritari e mercati dei capitali fortemente regolati. Il controllo dei capitali esercitato dal governo cinese, per quanto meno rigido rispetto a pochi anni fa, è esso stesso un fattore limitativo della liquidità e della circolazione internazionale del renmimbi.
L’“esorbitante privilegio” del dollaro, come lo definì Valery Giscard d’Estaing da ministro delle finanze di De Gaulle, sembra destinato a rimanere ancora a lungo, la notizia della scomparsa della sua egemonia è fortemente esagerata.