Il cacao ha polverizzato tutti i record. A inizio aprile, alla Borsa di New York il future ha toccato i 10.000 dollari alla tonnellata, contro una quotazione media di 3.000 dollari negli ultimi decenni. Un’impennata del 260% in un anno, persino superiore alla crescita annua della superstar del momento, Nvidia.
È sicuramente un motivo di gioia per alcuni produttori e altrettanto sicuramente per alcuni speculatori, che riflette soprattutto le difficoltà in cui versa l’intera catena di produzione. E che non risparmia gli amanti del cioccolato, alle prese con due anni di inflazione alimentare galoppante a cui non sfugge neanche la loro golosa delizia, anche se il prezzo del cacao costituisce soltanto il 5-10% del prezzo finale di una tavoletta di cioccolato.
Come per qualsiasi fenomeno straordinario di mercato, anche in questo caso ingredienti fondamentali e speculativi si combinano per dare vita a questa ricetta amara. I secondi amplificano i primi, dato che la speculazione fiorisce sempre su un terreno fertile, quando germogliano i semi della crisi.
Ma quali sono questi semi, come dobbiamo trattarli e che cosa possono fare i mercati? I più evidenti sono di natura circoscritta: in Africa, piogge torrenziali seguite da una stagione siccitosa hanno messo duramente alla prova i principali paesi produttori. L’harmattan, vento secco e polveroso, ha imposto la sua legge.
Altri fattori sono più rivelatori della situazione globale. Sullo sfondo, la deriva climatica, puntualmente amplificata dal ciclo del Niño, ha subito una brusca accelerazione causando nel 2023 un cambiamento climatico che neanche i climatologi più allarmisti si spiegano: un innalzamento record di 0,2°C della temperatura media del pianeta. Possiamo intravedere i segnali di una perturbazione del ciclo della vegetazione, che non fa presagire raccolti regolari migliori negli anni a venire. Alcune annate potranno essere certamente più clementi, ma la tendenza non depone a favore di un ritorno duraturo alle condizioni a cui eravamo abituati. Dovremo adattarci!
Un altro ingrediente fatale, in agricoltura come in finanza, è l’assenza di diversificazione. L’approccio produttivista standard in agricoltura ha dato vita a piantagioni industriali di cacao prive di diversità, che hanno depauperato il suolo, sottraendolo a foreste fertili antiche, talvolta secolari. In simili circostanze è sufficiente un granello nell’ingranaggio, nel nostro caso la pioggia o il vento, a perturbare totalmente il sistema, poiché gli alberi sono alla fine un unico grande organismo. Ecco quindi che, sussistendo le condizioni, i parassiti prosperano in maniera eccessiva, perché si sono inceppati i meccanismi naturali di autoregolazione tramite la diversità delle specie. Lo stesso fenomeno interessa le piantagioni industriali di pini in Europa o in Canada per esempio.
Infine, come nelle crisi industriali, anche nella crisi del cacao si inserisce un ultimo problema legato alla diversificazione: l’approvvigionamento. Così come la produzione di microchip di ultima generazione è concentrata a Taiwan, esponendo l’economia globale ai rischi di possibili tensioni locali, la produzione di cacao è concentrata per quasi il 60% in Costa d’Avorio e Ghana. Una migliore ripartizione mondiale, certo a scapito della concentrazione dei vantaggi produttivi a breve termine e quindi dei costi di produzione, contribuirebbe a bilanciare il rischio ambientale e quindi a stabilizzare i prezzi nel lungo termine.
La crisi del cacao rivela in sottofondo i rischi inerenti alla monocoltura e all’industrializzazione del patrimonio vivente. Per porre rimedio a questi mali, industriali e agricoli, la ricetta c’è ed è ben nota, si chiama sostenibilità. Complessa da attuare, costosa nelle prime fasi, politicamente difficile da accettare, permette di massimizzare la redditività a lungo termine. Diversificazione delle specie, rotazione delle colture alternate a maggese, prezzi sostenibili per i produttori, speculazione sorvegliata, ripristino degli ambienti e dei cicli naturali: gli ingredienti sono tutti disponibili, anche se non vengono utilizzati spontaneamente.
Questo approccio ricade in parte sotto la responsabilità dei mercati, che possono orientare i flussi di capitali verso forme di redditività più ponderate. Ne è la prova l’operato del gruppo LBP AM, di cui fa parte La Financière de l’Echiquier, che nei suoi investimenti rafforza costantemente gli obiettivi di sostenibilità senza sacrificare quelli finanziari. Recentemente il gruppo ha pubblicato un aggiornamento della sua politica sulla biodiversità, corredata da sei impegni. Non risolverà sicuramente la crisi attuale del cacao, ma dimostra perlomeno che una parte degli investimenti può essere fatta confluire verso pratiche più sane e quindi più resilienti alle crisi. Una condizione per permettere che il futuro sia meno amaro… e che il cioccolato continui a essere un piacere.