La Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR) è stata introdotta con l’obiettivo di rafforzare la trasparenza sugli impatti ambientali e sociali degli investimenti. Ma, a quattro anni dalla sua implementazione, le sue promesse si scontrano con una realtà fatta di disclosure disomogenee, approcci interpretativi diversi e un utilizzo talvolta superficiale dei requisiti normativi. Ad affermarlo è il report di ShareAction, Bridging the Data Divide, che analizza la qualità delle dichiarazioni pubblicate da trenta grandi asset manager con sede o operanti nell’Unione Europea in merito all’engagement e alla due diligence in materia di sostenibilità, valutando in che misura queste risultano conformi ai requisiti normativi previsti dal SFDR. Lo studio è stato realizzato per aiutare il lavoro di semplificazione della Commissione Europea, che dovrebbe essere presentato nel quarto trimestre del 2025.
Dall’indagine emerge che alcuni dei principali gestori patrimoniali europei stanno compiendo progressi significativi nella loro informativa sulla sostenibilità, ma nella maggior parte dei casi le informazioni fornite risultano spesso generiche, parziali o difficili da reperire, ostacolando così l’obiettivo della normativa: fornire agli investitori finali strumenti informativi chiari per valutare l’allineamento dei prodotti finanziari con la transizione sostenibile.
A livello di entità, ovvero per quanto riguarda l’intera società di gestione, gli asset manager forniscono sempre più spesso informazioni significative sulla due diligence e sull’engagement, anche se le buone pratiche non sono ancora diffuse e spesso mancano dati rilevanti o metodologie strutturate.
Andando a vedere nel dettaglio su 27 asset manager che hanno pubblicato dichiarazioni a livello di entità, tutti hanno incluso una qualche descrizione delle politiche di due diligence nei loro Principal Adverse Impact (PAI) statements, ma solo 12 hanno fornito dettagli significativi, ad esempio sui criteri di priorità e sugli ambiti di impatto più rilevanti. Nella maggior parte dei casi, le informazioni restano su un piano generale, senza riferimenti operativi o indicatori misurabili.
Eppure, alcuni esempi virtuosi dimostrano che dichiarazioni più solide sono possibili.
Meglio invece le performance sulle disclosure relative all’engagement con oltre la metà degli asset manager che ha descritto in modo dettagliato le proprie politiche, inclusi gli strumenti utilizzati e il modo in cui l’engagement contribuisce a ridurre i danni che i loro investimenti possono causare. Tuttavia solo una minoranza ha indicato esattamente quali impatti cerca di mitigare tramite tali attività e in che modo si modificano le strategie quando non si ottengono miglioramenti.
Un ulteriore elemento critico riguarda la coerenza comunicativa. In molti casi, dati rilevanti già presenti in altri report aziendali non vengono integrati nelle dichiarazioni previste dalla SFDR, determinando un disallineamento tra i diversi canali informativi che può compromettere l’efficacia complessiva della regolamentazione.
Le dichiarazioni degli asset manager a livello di prodotto – che comprendono i formati precontrattuali, le informazioni pubblicate sui siti web e i report periodici – su engagement e due diligence confermano la necessità di una maggiore coerenza. Dei 29 asset manager che hanno fornito dichiarazioni precontrattuali, 22 hanno elencato i PAI considerati, ma solo nove hanno spiegato il processo di selezione, limitando così la comprensione delle scelte alla base delle strategie sostenibili.
I documenti pubblicati sui siti web risultano ancora più carenti: solo nove gestori hanno illustrato in che modo interagiscono con le società presenti nei portafogli, mentre appena sette hanno descritto le procedure di due diligence applicate ai singoli prodotti. Infine, anche i report periodici che dovrebbero fornire informazioni sulle azioni intraprese durante l’anno, mostrano un livello di dettaglio disomogeneo. Solo cinque asset manager hanno descritto azioni specifiche collegate a risultati concreti, mentre la maggioranza si limita a descrizioni procedurali e a una rendicontazione quantitativa dei PAI molto variabile. Tutto ciò si traduce in un’informazione poco utile per l’investitore finale, che si ritrova a dover valutare fondi sulla base di dichiarazioni più descrittive che effettivamente informative.
Le proposte di ShareAction
Per correggere questa situazione, ShareAction ha formulato tre raccomandazioni.
La prima riguarda il mantenimento e il rafforzamento delle disclosure a livello di entità: l’analisi degli impatti negativi deve essere fondata su una metodologia chiara, trasparente e misurabile. Gli operatori devono essere obbligati a spiegare come identificano, valutano e riducono gli impatti, e come le attività di engagement si inseriscono in questa strategia.
Un’altra proposta chiave riguarda l’introduzione di requisiti obbligatori di disclosure sull’engagement per tutte le categorie di prodotti finanziari. Nel futuro sistema di classificazione previsto dalla Commissione Europea, i prodotti dovranno essere raggruppati in categorie “sostenibili” o “di transizione”, ciascuna con criteri minimi. In entrambi i casi, l’engagement dovrà essere documentato, con obiettivi misurabili, strumenti di escalation definiti e rendicontazione dei risultati ottenuti. Questo è particolarmente cruciale per i prodotti “di transizione”, dove l’engagement dovrebbe essere obbligatorio per assicurare un’effettiva pressione sulle aziende affinché migliorino la propria performance ambientale e sociale.
Infine, il report sottolinea la necessità di rendere più accessibili e navigabili le dichiarazioni pubblicate: documenti specifici per ciascun prodotto, organizzati per tema, facilmente individuabili nei siti web dei gestori. Solo così si può garantire un livello minimo di trasparenza utile all’investitore retail.
Nel complesso, il lavoro di ShareAction offre una fotografia dello stato della finanza sostenibile europea. Il problema non è la mancanza di norme, ma il modo in cui queste vengono attuate e comunicate.