Nel 2023 il deficit fiscale federale degli Stati Uniti ha superato i 2000 miliardi di dollari, una cifra pari al 7% dell’intero PIL Usa: in altri termini, il governo federale degli Stati Uniti ha speso 2000 miliardi di dollari in più rispetto alle entrate che ha registrato durante l’anno fiscale.
Considerando che attualmente gli Usa non sono né in guerra né in recessione e che, solitamente, nei periodi di espansione economica il deficit dovrebbe ridursi, non aumentare, il disavanzo di bilancio appare ancora più preoccupante. Inoltre, come ben sapranno gli analisti che si occupano di mercati emergenti, l’aumento del deficit fiscale rappresenta spesso un campanello di allarme sullo stato di salute dell’economia di un Paese, oltre ad esercitare pressioni sul fronte valutario. Il clima di apprensione generale è confermato dal fatto che, durante gli incontri annuali del Fondo Monetario Internazionale, tenutisi lo scorso autunno in Marocco, la situazione fiscale degli Stati Uniti figurava in cima alla lista delle preoccupazioni di oltre 300 investitori istituzionali intervistati. Proprio l’aumento del debito pubblico è stato all’origine delle decisioni delle agenzie di rating Fitch, che in agosto ha declassato il debito del Tesoro americano da AAA a AA+, e Moody’s, che più recentemente ha modificato l’outlook del credito in negativo, per via del “significativo indebolimento della sostenibilità del debito Usa”.
Sebbene il disavanzo registrato nel 2023 avrà conseguenze non solo nel breve, ma anche nel medio-lungo periodo, riteniamo che, come accade per la maggior parte delle questioni macroeconomiche, le preoccupazioni siano eccessive. L’impennata del deficit fiscale negli Stati Uniti è da ricondurre, da un lato, al costante incremento della spesa pubblica, dall’altro, in misura maggiore, al crollo delle entrate del governo federale (Figura 1), che nel 2023 sono diminuite di 457 miliardi di dollari, dopo un 2022 contrassegnato da entrate particolarmente elevate. Tuttavia, ci sono valide ragioni per credere che si tratti di uno shock temporaneo, dovuto a una combinazione di fattori, tra cui, in primo luogo, il crollo delle imposte sul reddito delle persone fisiche, che rappresentano la principale fonte di entrate per il governo, diminuite di 456 miliardi di dollari. Un calo che sembra in contrasto con la solidità del mercato del lavoro, ma che sarebbe riconducibile alla riduzione delle imposte sulle plusvalenze a seguito del crollo del mercato azionario del 2022. Verso la fine del 2022, infatti, il valore di mercato delle azioni detenute dalle famiglie americane è sceso del 25% su base annua, contribuendo a una diminuzione dell’8% del totale delle imposte sulle persone fisiche riscosse nel 2023. Inoltre, il rinvio delle imposte per i residenti delle aree colpite da calamità naturali, come gli incendi che hanno devastato la California, hanno fatto sì che parte del gettito fiscale del 2023 sia stato posticipato al 2024.
Infine, anche la categoria residuale “altre imposte” (Figura 2), che include le entrate da fonti diverse, come ad esempio i dazi sulle importazioni o gli utili in eccesso registrati dalla Federal Reserve, è diminuita di 127 miliardi di dollari nel 2023. Dal momento che la Fed paga il tasso dei Fed Funds sulle sue passività e guadagna dai suoi asset, finisce con l’indebitarsi a breve e fare credito a lungo termine, quindi non stupisce che, pagando il 5,5% e guadagnando solo l’1% (come fa, ad esempio, sui buoni del Tesoro a dieci anni che ha acquistato nel 2020), i suoi utili si siano ridotti. Secondo le stime del Congressional Budget Office (CBO), i profitti della Fed sarebbero scesi dai 107 miliardi di dollari del 2022 ai 500 milioni del 2023, da cui gran parte della riduzione della categoria “altre imposte”. Se nel 2024 i tassi d’interesse rimarranno elevati come prevede attualmente il consensus, la compressione dei margini della Fed potrebbe continuare a influire negativamente sulle entrate federali. Il lato positivo è che, le entrate fiscali riconducibili al rally dei mercati del 2023 andranno invece a finanziare le casse dell’erario, riportando il gettito complessivo alla normalità e invertendo lo shock temporaneo del 2022-2023.
Indice
Un governo indebitato, che spende più velocemente di quanto guadagna
Se si passa ad analizzare il lato dell’equazione relativo alla spesa pubblica, si noterà che quest’ultima ha subito un incremento di 552 miliardi di dollari dal 2022 al 2023. A partire dal luglio 2022, infatti, la spesa pubblica federale ha cominciato a crescere a un tasso medio annuo del 9%, ben al di sopra della crescita media annua del 6% registrata tra il 2014 e il 2019. Analizzando il bilancio Usa, la maggior parte della spesa pubblica è destinata a voci “non discrezionali” come previdenza, sussidi per disoccupati e veterani e assistenza sanitaria (Medicare), che per il 2023 hanno rappresentato il 66% della spesa complessiva. Se poi si include la spesa per la difesa e il pagamento degli interessi sul debito, si arriva all’88% della spesa complessiva.
L’aumento delle spese legate a previdenza sociale e assistenza sanitaria nel 2023 è in parte riconducibile ai rialzi dei tassi d’interesse e all’inflazione, poiché pensioni e sussidi di disoccupazione vengono adeguati all’inflazione e le spese mediche sono diventate più care. Da qui la speranza che, con il rallentamento dell’inflazione, le pressioni sulla spesa pubblica legate all’aumento dei prezzi possano progressivamente attenuarsi. Tuttavia, l’aumento della spesa è in gran parte riconducibile all’invecchiamento della popolazione: nel 2022 gli anziani rappresentavano il 17,3% della popolazione statunitense, contro il 13,7% del 2010 e se, come indicano le proiezioni attuali, gli anziani arriveranno a rappresentare il 20% della popolazione totale entro il 2030, è facile prevedere come pensioni e sanità continueranno a pesare sulle casse dello Stato.
Passando al capitolo degli interessi sul debito federale, nel 2023 il governo Usa ha pagato 659 miliardi di dollari di interessi ai possessori di buoni del Tesoro (+39% rispetto al 2022), una cifra pari al 2,4% del Pil nominale. Nonostante siamo ancora lontani dal record del 3,1% di Pil toccato nel 1991, i più pessimisti temono che la tendenza al rialzo a cui stiamo assistendo possa rendere insostenibile il debito totale, rendendo necessario un taglio netto della spesa pubblica. Il pagamento di interessi sul debito troppo elevati potrebbe infatti innescare un circolo vizioso, con conseguenze negative per gli investitori obbligazionari: se gli interessi da pagare aumentano, il Tesoro deve emettere più debito per finanziarsi, con un conseguente aumento dei rendimenti e degli interessi da corrispondere.
Ci vorrebbe una sfera di cristallo per il bilancio
I timori fin qui espressi potrebbero sembrare eccessivi, ma si consideri che, quando il pagamento degli interessi sul debito toccò la vetta del 3,1% del Pil nel 1991, si aprì una crisi di bilancio che pose le basi per il “Contratto con l’America” di Newt Gingrich, il piano che, tagliando le spese a scapito del welfare sociale, riuscì a riportare il bilancio federale in pareggio dal 1998 al 2000, creando un surplus nel 2001.
Secondo le proiezioni di base del CBO, la spesa per gli interessi sul debito Usa è destinata a rimanere entro una soglia gestibile, ma dovrebbe comunque aumentare al 3,3% del Pil entro il 2030. L’eventualità che la spesa per gli interessi possa tornare all’1% del Pil esiste, ma si potrebbe verificare solo se i tassi d’interesse tornassero rapidamente verso zero, cosa improbabile a meno che gli Stati Uniti non entrino in una profonda recessione. Qualora, invece, si verificasse lo scenario peggiore e i tassi d’interesse restassero elevati per altri dieci anni, la spesa per interessi sul debito potrebbe raggiungere il 5% del Pil entro il 2033 (Figura 3), rendendo più urgente un taglio della spesa pubblica.
È bene precisare che solo grazie al ricorso al debito gli Stati Uniti riescono a spendere 2000 miliardi di dollari in più di quello che entra nelle casse dell’erario: nel 2023 le emissioni totali di Treasury, comprese quelle annunciate nel Q4, ammontavano a 2,54 trilioni di dollari, cifra record degli ultimi 23 anni, se si esclude il 2020 (ovvero l’apice della pandemia da Covid-19). E già si prevedono altri 2,5 trilioni di dollari di emissioni in arrivo nel 2024.
La buona notizia (per ora) è che gli investitori, sia famiglie americane che società globali, hanno aderito con entusiasmo alle nuove emissioni rimpinguando le casse del Tesoro, pur a fronte di rendimenti più elevati (Figura 4). In particolare, l’88% delle emissioni per l’anno solare 2023 è stato rappresentato da Treasury con scadenza inferiore a un anno.
Il deficit fiscale degli Stati Uniti è enorme, ma, a differenza di altri Paesi gravati da livelli altissimi di debito pubblico (come lo Zambia, che recentemente ha dichiarato il default proprio a causa dell’aumento del costo del debito), il dollaro americano resta la valuta di riserva globale e, in termini di percentuale del Pil, il costo del debito è inferiore ai livelli degli anni ’90. Inoltre, l’aumento delle entrate federali nel 2024 dovrebbe portare a una riduzione del disavanzo di bilancio.
Nessuno ha la sfera di cristallo e gli effetti a cascata a cui potremmo assistere nel lungo periodo sono complicati da definire; ciò che sappiamo al momento è che nel breve termine il Tesoro ha una soluzione per il deficit fiscale, a cui gli investitori sembrano essere interessati.