Prendi un’aereo? Mangi una bistecca? O accendi una lampadina? Stai compiendo azioni che emettono CO2 o gas serra. E contribuisci così al riscaldamento globale del clima. E’ ormai infatti dimostrato che l’accumulo dei gas serra in atmosfera, causato dalle attività umane, sia la causa principale dell’aumento della temperatura terrestre e del cambiamento climatico.
E l’energia non solo è necessaria per la maggior parte delle attività che compiamo, ma tutto il sistema produttivo industriale dell’attuale modello economico richiede un notevole consumo di energia la cui produzione, provenendo ancora per la maggior parte da fonti fossili, determina emissioni di gas serra.
L’obiettivo dell’Accordo di Parigi, entrato in vigore a novembre 2016, è quello di contenere l’aumento della temperatura terrestre ben al di sotto dei 2°C, cercando di limitare l’incremento a 1,5°C. Per raggiungere questo obiettivo è necessario decarbonizzare l’economia, cioè transitare verso un sistema economico che riduca progressivamente le emissioni.
Un passaggio fondamentale per potere definire un percorso di mitigazione climatica è riuscire a quantificare le emissioni per comprendere qual è il contributo delle attività umane, e in particolare economiche, all’incremento dei gas serra. Un efficace strumento a tal fine è il calcolo della carbon footprint.
Indice
Cos’è la carbon footprint?
La carbon footprint è, infatti, un indicatore il cui calcolo permette di stimare la quantità di emissioni di gas climalteranti, cioè con un effetto sul riscaldamento climatico, generate in modo diretto o indiretto da un individuo, un’azienda, un evento, un prodotto o una nazione.
La misura utilizzata per la carbon footprint viene espressa in termini di tonnellate di CO2, oppure di CO2 equivalente se nella stima vengono considerate solo le emissioni di biossido di carbonio (CO2) o anche di altri gas climalteranti, quali per esempio il metano (CH4), l’ossido di diazoto (N2O), gli idrofluorocarburi (HFC), i perfluorocarburi (PFC) o l’esafloruro di zolfo (SF6), come stabilito dal Protocollo di Kyoto, accordo internazionale firmato nel 1997 per contrastare il cambiamento climatico. La misura di CO2 equivalente è utilizzata per indicare l’impatto sul riscaldamento globale di una certa quantità di gas serra rispetto a quello che avrebbe la stessa quantità di CO2.
Traduzione di carbon footprint e l’ecological footprint
L’origine del nome “carbon footprint”, che in italiano si traduce con “impronta carbonica”, deriva dal concetto di impronta ecologica (Ecological Footprint Analysis, EFA) ossia il sistema di contabilità ambientale che permette di tradurre i consumi annuali di una determinata persona, comunità o nazione negli “ettari virtuali” di territorio che sarebbero stati necessari a produrli in maniera sostenibile. Il metodo è stato sviluppato da Mathis Wackernagel e William Rees all’inizio degli anni ’90 presso l’Università della British Columbia e permette di calcolare quanti pianeti come la Terra sarebbero necessari per rigenerare in modo sostenibile quanto consumiamo. Attualmente la misura dell’ecological footprint ci dice che per produrre i nostri consumi utilizziamo le risorse di due pianeti Terra (per la precisione 1,75). Occorre quindi fare un passo indietro.
Attraverso l’ecological footprint si può comprendere quanto sostenibile sia il nostro stile di vita o quello dell’economia considerando tutte le fasi del processo produttivo.
Se si vuole, per esempio, calcolare l’impronta ecologica di una forma di pane, come osservato dal professor Marco Bagliani, dell’Università di Torino, nell’Atlante della contabilità ambientale del Piemonte, bisognerà innanzitutto considerare l’uso diretto di terreno, quindi, misurare l’estensione del campo necessaria per far crescere il grano. In realtà però ciò non basta per calcolare l’impatto complessivo associato alla forma di pane. È necessario, come suggerisce il calcolo dell’EFA, prendere in considerazione anche gli utilizzi indiretti. Per produrre il pane, infatti, occorre coltivare il campo, raccogliere e macinare il frumento, trasportarlo, lavorarlo in pasta, cuocere, impacchettare e, infine, vendere il tutto. Ciascuna di queste operazioni richiede energia, materia, infrastrutture e macchinari, di cui, attraverso calcoli opportuni, è possibile stimare l’effettiva pressione sugli ecosistemi e convertirla in superficie produttiva utilizzata per quantificare così l’impronta ecologica totale di una forma di pane.
La somma della pressione sugli ecosistemi di tutti i consumi di una nazione determina l’Ecological Footprint. Un’interessante analisi è il confronto dell’Ecological Footprint di una nazione, con la sua biocapacità, che misura la capacità rigenerativa delle sue risorse naturali ed è espressa in termini di superficie dei terreni ecologicamente produttivi presenti all’interno del Paese. Questo confronto dà un’indicazione di se un Paese è in deficit o in riserva di risorse naturali, ossia se sta consumando più biocapacità di quanta ne disponga.
L’immagine sotto riportata mostra l’analisi del Global Footprint Network su quali siano i paesi debitori (in rosso), ossia quelli che consumano più di quanto il loro territorio sia in grado di rigenerare, e quelli creditori (in verde), ossia che hanno maggiore biocapacità, i cui ecosistemi sono in grado di assorbire gli scarti generati dalle attività umane incluse le emissioni inquinanti e di gas climalteranti. Come si vede tra le grandi nazioni a credito verso l’umanità spicca il Brasile, non a caso considerato il polmone del Mondo per la presenza della foresta Amazzonica, nonostante un recente studio pubblicato da Nature indichi che questa capacità stia diminuendo a causa degli incendi.
L’Italia è un Paese debitore di biocapacità. In particolare, dagli inizi degli anni 2000 i consumi di ciascun italiano hanno impiegato in media cinque volte la biocapacità disponibile procapite, ma negli ultimi anni si è visto qualche segno di miglioramento.
La metodologia introdotta dall’ecological footprint ha riscosso notevole successo negli anni e si è particolarmente distinta per la sua validità informativa; pertanto, a essa sono susseguiti altri indicatori che stimano gli impatti della società sulle matrici ambientali. Tra questi i più conosciuti sono la water footprint e appunto la carbon footprint che si focalizzano rispettivamente sull’utilizzo di acqua dolce e sull’emissione di biossido di carbonio e altri gas climalteranti.
Come Calcolare la carbon footprint
Per calcolare la carbon footprint delle aziende vi sono due metodologie maggiormente utilizzate. Da una parte il GHG Protocol prodotto dal World Resource Institute (WRI) e dal World Business Council for Sustainable Development (WBCSD), dall’altra lo standard prodotto dall’Organizzazione Internazionale per la standardizzazione (ISO), con particolare riferimento all’ISO 14064.
Gli standard e le linee guida del protocollo GHG sono un sistema nato per consentire alle aziende di misurare, gestire e segnalare le emissioni di gas serra dalle loro operazioni e catene del valore. Attraverso tabelle intersettoriali con standard e dati sulle emissioni dei diversi settori e dei diversi idrocarburi i protocolli permettono alle aziende, ma anche città o nazioni, di predisporre una reportistica affidabile delle proprie emissioni che comprende tutti e sei i gas serra inclusi nel protocollo di Kyoto.
Nel 2016, il 92% delle aziende Fortune 500 che hanno risposto a CDP (Carbon Disclosure Project) ha utilizzato il protocollo GHG direttamente o indirettamente attraverso un programma basato su tale standard.
Nel calcolo si deve scegliere l’ambito della misurazione e cioè se includere solo le emissioni dirette (Scope 1), oppure anche quelle derivanti dal prelievo di elettricità (Scope 2) e infine se esaminare quelle indirette, emesse lungo tutta la catena di approvvigionamento (Scope 3).
ISO 14060
La serie di norme ISO 14060 fornisce chiarezza e coerenza per la quantificazione, il monitoraggio, la rendicontazione e la validazione o verifica delle emissioni e delle rimozioni di gas serra (GHG).
In particolare, la norma ISO 14064-1 definisce i principi e i requisiti per la progettazione, lo sviluppo, la gestione e la rendicontazione degli inventari di gas serra a livello di organizzazione aziendale; la ISO 14064-2 definisce invece i principi e i requisiti per la determinazione dei riferimenti e per il monitoraggio, la quantificazione e la rendicontazione delle emissioni di un progetto; mentre la numero tre, l’ISO 14064-3 specifica i requisiti per la verifica o la validazione delle dichiarazioni sui gas serra relative agli inventari, ai progetti e alle impronte dei prodotti.
La ISO 14065, poi, definisce i requisiti per gli organismi che convalidano e verificano le
dichiarazioni relative ai GHG, mentre la ISO 14066 specifica i requisiti di competenza per i team che si occupano della validazione e della verifica. Infine, la ISO 14067 è la norma che definisce i principi, i requisiti e le linee guida per la quantificazione dell’impronta carbonica dei prodotti.
Sono numerosi gli enti che offrono servizi per il calcolo. In Italia, Accredia (Ente Unico nazionale di accreditamento in Italia) accredita gli organismi che possono verificare e validare il calcolo della carbon footprint in conformità alla norma UNI EN ISO 14060.
Come ridurre la carbon footprint di un’impresa?
Una volta quantificate le emissioni, è possibile stabilire piani di riduzione. Il calcolo della carbon footprint permette di identificare le aree, i settori o le fasi produttive che contribuiscono maggiormente alla produzione di gas serra. In questo modo si può agire in due modi: riducendo gli impatti lungo la catena del valore oppure compensando le emissioni.
Investire nella transizione
Tra le principali azioni per ridurre le emissioni vi è l’utilizzo di fonti di energie rinnovabili, come l’energia solare, eolica, marina o all’idrogeno verde che producono meno emissioni rispetto alla combustione delle fonti fossili. Allo stesso modo, passare all’utilizzo di vetture elettriche per il trasporto merci o per la flotta aziendale, oppure portare avanti iniziative che incentivino i dipendenti verso la mobilità sostenibile e in generale li formino per promuovere pratiche green come ridurre l’uso di plastica o staccare i dispositivi elettronici dalla presa della corrente quando non in uso.
Inoltre, contribuisce a ridurre le emissioni e quindi la carbon footprint, riciclare alcuni materiali o effettuare un’analisi del ciclo di vita del prodotto per capire se alcuni scarti di produzione possono essere utilizzabili in altro modo e nel caso investire in sinergie industriali.
Un contributo può venire dall’innovazione che permetterà nuove soluzioni e il miglioramento dell’efficienza di quelle esistenti.
Compensare le emissioni
Per ridurre il proprio impatto in termini di emissioni, una possibilità deriva anche dalla compensazione. Questo significa adoperarsi per fare in modo di eliminare tante emissioni quante se ne producono (o una parte di esse). Tra le tecniche che possono essere utilizzate vi è per esempio la piantumazione di alberi che durante la crescita assorbono CO2 oppure finanziando progetti di efficientamento delle risorse o legati all’utilizzo di risorse rinnovabili che evitano di produrle.
Per quanto riguarda la piantumazione di alberi, numerose sono le aziende che stanno andando in questa direzione. Per esempio, Intesa Sanpaolo ha intenzione di piantare 100 milioni di alberi entro il 2025, così come Mastercard attraverso l’iniziativa Priceless Planet Coalition.
Ma non solo le “big company” si adoperano in tal senso, Creditis, per esempio, ha ideato un prestito personale per il gruppo Banca Carige legato a progetti di riforestazione attraverso la società benefit Treedom, azienda italiana che consente di partecipare a progetti di piantumazione in tutto il mondo.
Rientra, inoltre, tra le attività di compensazione il finanziamento di progetti di energia rinnovabile in paesi in via di sviluppo, come per esempio le iniziative di Eni in Ruanda.
In futuro molte speranza sono legate alla tecnica di cattura del carbonio in fase di emissione attraverso la tecnologia del Carbon Capture and Storage. Attualmente esistono alcuni progetti, tra cui il maggiore riguarda alcuni impianti di estrazione di petrolio in Australia e il progetto Northern light della Norvegia che si ripropone di segregare il carbonio sotto il Mare del Nord.